Un esperimento di pace, sotto l’egida della bandiera arcobaleno. È quanto succede in Israele, dove giovani ebrei e musulmani superano le storiche divisioni politiche vivendo assieme in case-famiglia rivolte alla comunità LGBT. In fuga da contesti familiari violenti e intolleranti i teenager spesso provenienti da famiglie molto religiose trovano un appiglio salvifico nei progetti di accoglienza sparsi un po’ in tutto il territorio israeliano
Leggiamo la testimonianza di Yael Doron, una lesbica militante che dirige una casa rifiugio per ragazzi e ragazze fra i 14 i 18 anni che fuggono da famiglie ultra-religiose ebree o musulmane, oppure che abbandonano la casa natale perché i genitori reagiscono alla loro rivelazione di essere omosessuali mandandoli in terapia o addirittura con le botte. “Ospitiamo in media il 65 per cento di maschi e il 45 per cento di femmine” dice Yael “e gli adolescenti transgender stanno aumentando. Nel 2010 erano il 15 per cento, quest’anno sono il 37 per cento”. Un circuito di rifugi per minorenni in difficoltà – 22 case fra Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa – che costituisce un progetto assolutamente unico in tutto il Medioriente, si chiama Beth Dror ed è finanziato dallo Stato per l’85 per cento.
Comunità queste che aiutano a conciliare le differenze culturali tra ebrei e musulmani ma anche certe contrapposizioni interne alla comunità LGBT israeliana, come quella tra gay e lesbiche. “Fra gay e lesbiche ci sono divergenze in questo momento in Israele e dobbiamo darci dei nuovi obiettivi comuni”, racconta Yael. “Negli anni ’80 e ’90 qui in Israele si trattava di uscire dall’ombra e dalla vergogna, di conquistare i diritti, di rendere legale e normale essere omosessuali. Ma oggi molti maschi omosessuali manifestano perché vogliono la maternità surrogata, come le coppie eterosessuali sposate, aspirano a famiglia e i figli. Per le donne lesbiche questo non è un obiettivo, anzi molte sono contrarie alla surrogacy pur riconoscendo che la discriminazione verso le coppie di uomini esiste. Le donne della comunità LGBT sono piuttosto interessate ai risvolti sociali, per esempio a rendere possibile per tutti vivere in pace, ma soprattutto ai diritti dei più giovani, degli adolescenti omosessuali e transgender”.
Il progetto è importantissimo ma non mancano le polemiche. Molte organizzazioni LGBT e molti pacifisti infatti hanno accusato il Ministero del Turismo israeliano di portare avanti un’operazione di pinkwashing ospitando giornalisti e spendendo denaro pubblico in iniziative di comunicazione per far sapere a mezzo mondo che Tel Aviv è una città estremamente gay friendly, con un’intensa vita nottura gay, splendide spiagge per la comunità LGBT e una scena artistico-musicale vivissima. Tutto questo mentre, ad esempio, la comunità gestita da Yael Doron vive comunque una situazione di forte precarietà: è ospitata in un appartamento affittato in periferia e non ha case-rifugio stabili di sua proprietà.
In ogni caso nei rifugi del progetto, la comunità LGBT gode di diritti e di una protezione indispensabile. Il lavoro che viene portato avanti è assai meritevole: i servizi in gran parte sono finanziati dallo Stato e si lavora per favorire un cambio di mentalità, anche nelle aree con popolazioni più conservatrici o ultrareligiose. Ogni anno, 70-80 palestinesi omosessuali trovano rifugio qui e si salvano la vita. Come dice Neturei, uno dei ragazzi transgender accolti da Yael, che ha vissuto nella comunità fino a 18 anni e adesso abita a Tel Aviv in una casa parzialmente sostenuta dal denaro pubblico: “Nelle famiglie arabe e musulmane se sei omosessuale o transgender tuo padre ti ammazza. In quelle ebree ortodosse, invece, ti piangono per morto, ti fanno anche un falso funerale, ma almeno non ti uccidono”. In ogni caso l’emergenza in questi luoghi è ancora viva e queste case rifugio sono al momento indispensabili per creare “oasi” di umanità e accoglienza in un contesto molto rigido e intollerante.
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