Francesco festeggia cinque anni da Papa: è cambiato qualcosa per i gay?

Dalla frase "chi sono io per giudicare un gay?" ad oggi: un bilancio dei primi cinque anni di pontificato di Bergoglio.

papa francesco omosessuali
Pope Francis
3 min. di lettura

Cinque anni fa si chiudeva il conclave che ha eletto Jorge Mario Bergoglio al soglio pontificio con il nome di Francesco: cos’è cambiato per gli omosessuali?

Sarà stato per lo stile semplice e disadorno con cui si è presentato, sarà stato perché succedendo a due papi conservatori come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ogni segno di contemporaneità è stato salutato come il gesto di un rivoluzionario, o magari è bastato il nome, che ha promesso sobrietà e vicinanza agli ultimi; fatto sta che l’elezione di Papa Francesco era stata accolta fin da subito come un grande segno di rinnovamento nella Chiesa cattolica.

Come dimenticare inoltre la celebre frase “Chi sono io per giudicare?”, pronunciata dal pontefice nel 2013 sull’aereo che da Rio de Janeiro lo riportava a Roma e salutata come l’apertura della Chiesa verso le persone omosessuali. Eppure a cinque anni di distanza tutto sembra essere rimasto fermo a quella frase.

Se per un gay ateo il giudizio sulle mancanze della chiesa cattolica è relativamente semplice, spesso senza appello, per un credente omosessuale impegnato nel tentativo di conciliare la propria natura con le esigenze della fede la valutazione si fa più articolata. Qual è il bilancio di Francesco sul tema dell’omosessualità?

“È cambiato molto, purtroppo le persone si sono dimenticate di come fosse la situazione con i Papi precedenti” spiega convintamente Gianni Geraci, del Guado, gruppo milanese di riflessione su fede e omosessualità.

“Certo, la dottrina della Chiesa è sempre quella, ma prima era a dir poco ossessionata dall’omosessualità, che veniva affrontata solo per ribadire le condanne già presenti nei documenti ecclesiastici. Papa Francesco ha cambiato atteggiamento, ha cambiato il linguaggio con cui la Chiesa si rapporta alla questione”.

Non è un po’ poco rispetto alle aspettative, che il Pontefice si sia fermato al modo, alle parole con cui il Cattolicesimo tratta l’omosessualità?

“Guarda, dobbiamo ricordare che Papa Francesco è un gesuita ma non è un progressista, in Argentina per esempio fu un duro oppositore della legge sul matrimonio egualitario. Eppure prima di Francesco c’era il terrore ad affrontare il tema dell’omosessualità, lui non ha avuto paura a trattarlo nella sua quotidianità e questo ha avuto anche conseguenze a livello ecclesiale”.

Ad esempio?

“I teologi hanno ripreso a pubblicare e approfondire questa e altre tematiche, andando anche in disaccordo con il Pontefice, quando prima rischiavano di essere condannati e perdere l’insegnamento. Anche i vescovi ora hanno maggiore libertà nell’affrontare la situazione”.

Forse quindi è stata un po’ tirata per la giacchetta la frase “chi sono io per giudicare”? O malintesa?

“Mi sarei preoccupato molto se avesse detto una cosa diversa. Francesco ha semplicemente ricordato il primato della coscienza, un fatto che è nel cattolicesimo, anche se i suoi predecessori non l’avrebbero mai detto. È da questo atteggiamento che nascono le critiche dei conservatori, perché significa ammettere che si può non essere d’accordo con il Papa. Ma allora se possono manifestare il loro dissenso i conservatori, può anche accadere da parte dei più progressisti”.

“Quando il Papa sottolinea il primato della coscienza mette in evidenza una cosa che i gay dovrebbero ricordare – prosegue Gianni – Nel Catechismo si dice che in ogni caso i rapporti omosessuali non possono essere approvati, non che vadano condannati. È una bella differenza che rimanda la persona omosessuale a vivere secondo la propria coscienza, che è il primo vicario di Dio, prima del Papa e prima del Vescovo. I gay non devono chiedere a nessuno il permesso di essere ciò che sono”.

Da fedele, da cattolico, quali sono le tue aspettative rispetto alla strada intrapresa?

“Mi aspetto di continuare così. Rendere la Chiesa più attenta alla modernità e più inclusiva richiede tempo. Basti pensare che la Chiesa porta con sé una storia e una cultura millenaria e al suo interno ci sono un’enormità di sensibilità, nate da contesti diversi”.

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