E’ una storia di violenze e dolore, quella che Sergio, 24 georgiano, porta con sé. Ma è anche una storia che si appresta ad avere un lieto fine, grazie alla solidarietà internazionale. Costretto a scappare dalla Georgia perché in pericolo di vita a causa della fortissima omofobia che pervade la società di quel paese, Sergio ha da pochi giorni ottenuto la protezione internazionale da parte dell’Onu che gli ha concesso lo status di rifugiato grazie al quale potrà andare a vivere in un paese in cui nessuno nota la differenza tra essere gay ed essere eterosessuale. Abbiamo contattato Sergio in Ucraina, dove si trova da quattro mesi, in attesa della sua destinazione definitiva. Neanche l’Ucraina, infatti, è un posto sicuro per le persone lgbt e in questi giorni si sta discutendo una legge ancora più restrittiva di quella russa. Ecco la storia di Sergio.
La tua vicenda è diventata pubblica con la lettera che hai letto durante il meeting internazionale dell’ottobre scorso in Ucraina . Hai raccontato delle violenze subite, anche dai tuoi familiari, e dell’omicidio del tuo compagno. Vuoi raccontarci com’è andata?
Posso raccontarvi tutto, ma non chiedetemi del mio compagno: fa troppo male per parlarne.
Ok, cominciamo dall’inizio. Quando hai fatto coming out con la tua famiglia?
Non ho mai fatto coming out. E’ stata la polizia ad andare dai miei a dirgli che sono gay. E non c’è una ragione precisa. Semplicemente sono omofobi. In Georgia 9 poliziotti su 10 lo sono.
Come facevano a saperlo?
Glielo avevo detto io, perché dopo la seconda aggressione che ho subito, il 26 maggio scorso, sono andato a chiedere aiuto alla polizia ed ho detto che mi avevano picchiato perché sono gay. Mi hanno risposto:”Sei frocio”. Ho risposto: “No, sono gay”. E loro hanno ribattuto: “No, sei frocio, esci da qui”. Il giorno dopo sono venuti a casa a dirlo ai miei.
Chi ti aveva aggredito?
Non li conosco, ma credo siano estremisti religiosi. Mi hanno aggredito tre volte, la prima il 17 maggio, la seconda il 26 e la terza il 6 agosto. Sempre le stesse persone. La terza volta mi hanno rapito e portato nel bosco per picchiarmi.
Eri in casa quando è arrivata la polizia?
No, non c’ero.
E cos’è successo quando sei tornato?
Mio fratello mi ha detto che c’era stata la polizia a dire che sono frocio ed ha iniziato a picchiarmi. E’ andato avanti per un’ora di seguito. Alla fine ero in un lago di sangue.
E i tuoi genitori?
Mio padre è morto tre anni fa. Mia madre è italiana, vive e lavora a Roma. Mi ha detto che avrebbe preferito che fossi morto piuttosto che sapermi gay.
Cos’hai fatto dopo che tuo fratello ti ha picchiato in quel modo?
Niente. Ha continuato a farlo tutti i giorni fino al 15 luglio. Sono andato in un altro posto di polizia a chiedere aiuto, ma non è servito a niente.
Cos’è successo poi?
Il 28 giugno lo stato mi aveva riconosciuto lo status di vittima di violenza domestica e dal 17 luglio mi hanno dato una stanza in un rifugio per le persone che hanno subito questi abusi.
E com’è stata la vita lì?
Anche lì sono stato vittima di discriminazione, anche se non mi hanno mai picchiato. Mi chiamavano “frocio” e dicevano che tutti quelli come me dovrebbero bruciare al centro della piazza di Tblisi (la capitale della Georgia, ndr). E’ stato terribile, non mi sentivo al sicuro neanche lì, ma non avevo scelta: era l’unico posto dove pensavo di poter stare.
Anche i dirigenti del posto?
No, loro li minacciavano di buttarli fuori, ma non serviva a niente.
In Georgia ci sono leggi che puniscono l’omosessualità?
No, ma adesso c’è in discussione un progetto di legge simile a quello approvato in Russia. Al momento, è un problema culturale. E poi c’è la chiesa ortodossa che istiga la gente a perseguitarci e aggredirci.
Quando stavi in Georgia frequentavi locali gay o partecipavi a manifestazioni lgbt?
Non ci sono locali gay da noi e le uniche manifestazioni sono state quelle contro l’omofobia (finite in violenti scontri e pestaggi da parte della polizia e degli estremisti ortodossi, ndr), a cui ho partecipato. Non c’è mai stato un Pride, da noi.
Come sei uscito dalla Georgia?
Ho partecipato al progetto di International Trainings “LGBT together Against Homophobia”, in Ucraina. E non sono più tornato indietro, anche se all’inizio non pensavo di restare in Ucraina.
La tua famiglia ti ha cercato?
Sì, hanno tentato di raggiungermi. Hanno chiesto alle forze dell’ordine locali di vermi a cercare. Anche i mie parenti sono nelle forze dell’ordine.
Come hai saputo del tentativo dei tuoi? Te l’ha detto la polizia?
No, mi hanno avvisato alcuni miei amici che conoscono i miei fratelli.
Giunto in Ucraina, chi ti ha aiutato fino all’ottenimento dello status di rifugiato?
Molte associazioni, tra cui Arcigay Palermo, Front Line Defenders, un’associazione irlandese che protegge chi si occupa di diritti umani, l’ucraina Insight, le georgiane WISG e Identoba e ILGA-Europe, ma anche associazioni non strettamente lgbt come No Borders che qui in Ucraina si occupa di rifugiati. Grazie a loro, entro sei mesi, potrò andare a vivere in un paese che sceglierà l’Onu tra i tre che partecipano a questo programma: Svezia, Norvegia e Olanda. Deve essere un paese in cui sono è legale il matrimonio gay.
Come immagini ora il tuo futuro?
Voglio sposarmi e avere dei figli. In Georgia sarebbe impossibile, ma in Europa posso realizzare il mio sogno. E poi voglio continuare ad impegnarmi per i diritti delle persone lgbt: è lo scopo della mia vita.
Cosa diresti alle persone lgbt della Georgia, dell’Ucraina e di tutti quei paesi in cui l’omofobia diventa persecuzione e violenza?
Voglio dire loro di essere forti. Io mi sono trovato in una situazione orribile, senza il supporto della mia famiglia né del governo, ma ho tenuto duro e non ho mollato. E ora sarò trasferito dove potrò cominciare una vita nuova, migliore. Lottate per i vostri diritti e non lasciate che nessuno ve li tolga. Non abbiate paura di rivolgervi alle associazioni lgbt perché senza il loro supporto sarebbe difficile proteggersi.
di Caterina Coppola
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