SULL’ATTENTI DAVANTI AL COLONNELLO GAY

Parla il militare dell'esercito spagnolo Josè Sanchez Silva, che ha avuto la forza di dichiarare la sua omosessualità. E il problema dei gay nelle caserme emerge più attuale che mai. Risolto solo in Olanda e Danimarca.

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BARCELLONA – É indubbio che nell’ambiente militare il coraggio è considerato la qualità per eccellenza del buon soldato, il pane quotidiano degli eroi, ed è altrettanto indubbio che José María Sánchez Silva, tenente colonnello dell’Esercito spagnolo, di coraggio ne ha da vendere visto che si è pubblicamente dichiarato gay.

La figura mingherlina del colonnello Sánchez dalla copertina di Zero, la rivista gay piú letta in Spagna, è passata sulle prime pagine dei quotidiani e nelle notizie di apertura dei telegiornali e la sua vita, civile e militare, è diventata di dominio pubblico.

“Io non voglio protagonismo – dichiara ai microfoni che gli si affollano intorno – peró ero cosciente che mi sarei convertito in un riferimento per i molti gay che militano nelle Forze Armate spagnole”.

E non solo in quelle spagnole considerato che José Maria, 49 anni, tenente colonnello del Corpo Giuridico, pluridecorato al valor militare, giurista di formazione e soldato per passione, è il primo militare europeo di grado cosí alto che “esce dall’armadio”.

Un gesto, questo, che egli stesso definisce “onorevole, veritiero e coraggioso cosí come richiede l’etica militare, ma soprattutto necessario. Benché l’Esercito si sia democratizzato, se qualcuno non faceva questo passo sarebbe trascorso molto tempo prima che i diritti degli omosessuali si potessero far valere anche nelle Forze Armate”.

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Le reazione a queste dichiarazioni non si sono fatte attendere e se da una parte il COGAM, la piú importante organizzazione gay di Madrid, sottolinea con enfasi “l’importanza capitale di un avvenimento del genere in una istituzione tanto antiquata come quella militare” le alte sfere dello Stato Maggiore hanno risposto con un ostentato silenzio.

Il no comment dell’Esercito peró non intimorisce il colonnello Sánchez che sa il fatto suo. “É chiaro – dice – che non mi sanzioneranno per il fatto che mi sono dichiarato gay. Ci mancherebbe, Peró so che le rappresaglie possono essere di molti tipi, per motivi di lavoro o di presunte negligenze nel servizio. Ma io ho deciso di dichiarare pubblicamente la mia omosessualità perché i diritti si devono esercitare e le leggi devono adattarsi alla realtà sociale”.

E in questa decisione un impulso importante è venuto proprio dall’Italia: “Il mio gesto – insiste – reclama il diritto alla visibilità lo stesso diritto che hanno esercitato le migliaia di omosessuali nel World Gay Pride di Roma. Come militare non posso partecipare a una manifestazione del genere, peró appoggio totalmente queste lotte”.

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Le dichiarazioni del colonnello sono come un vero e proprio terremoto in un ambito, come quello militare, in cui l’omofobia è all’ordine del giorno. Quanti casi, in Italia in special modo, di giovani di leva sottoposti al nonnismo o di suicidi sospetti nascondono l’insulto, la presa in giro, la persecuzione di omosessuali che si trovano a vivere in un ambiente completamente ostile?

Del resto, a parte le solite eccezioni dell’Olanda e della Danimarca, il problema della omosessualità nelle caserme non ha trovato soluzioni da nessuna parte.

Negli Stati Uniti, l’allora candidato alla rielezione, Bill Clinton che aveva promesso di eliminare ogni discriminazione contro gay e lesbiche all’interno dell’Army, ha dovuto fare retromarcia di fronte alle reazioni del suo Stato Maggiore. Si è arrivati cosí alla ipocrita formula del “Don’t say, don’ask”: tu non mi dici che sei gay e io faccio in modo di non chiedertelo. La stessa posizione, anche se meno esplicita, delle Forze Armate italiane che serve solo a sancire una volta per tutte che i soldati omosessuali sono soldati di serie B.

Anzi per dirlo con le parole del colonnello Sánchez :“caca de mierda perché devono stare zitti, muti e quasi chiedendo perdono”.

E lui non sta né zitto, ne´muto, né tantomeno chiede perdono “Il mio – conclude – non è un atto di provocazione, bensí un atto in difesa della dignità della persona”.

E non importa se questa persona indossi un tutú, un vestito firmato o un’uniforme.

di Silvio Ajmone – da Barcellona

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