La sociologia dell’Aids nel doc di Adriatico e Corbelli

Come ci ha cambiato l'Hiv? Venticinque anni di epidemia attraverso le testimonianze di chi l'ha vissuta in prima persona nel documentario "+ o - Il sesso confuso - Racconto di mondi nell'era Aids".

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Aids, questo sconosciuto. Sembra calato un pericoloso velo di silenzio e omertà su questa grave malattia che ancora oggi nel mondo uccide 2 milioni di persone all’anno. Una rimozione che ha radici profonde. A colmare questo vuoto non solo informativo ma soprattutto culturale e sociale ci pensa il documentario + o – Il sesso confuso – Racconto di mondi nell’era Aids di Andrea Adriatico e Giulio Maria Corbelli (in foto) che verrà presentato il 26 febbraio in anteprima al festival ‘Visioni italiane’ di Bologna è approderà nelle sale ad aprile dopo un possibile passaggio al Togay. Abbiamo intervistato gli autori.

Com’è nato questo progetto?
Giulio Maria Corbelli – Ho conosciuto Andrea perché volevo intervistarlo a proposito del suo film ‘Il vento, di sera’. Gli ho detto che lavoravo per Anlaids, lui era volontario alla Lila. Nella mia vita l’Aids ha causato sconvolgimenti molto forti. Avevamo gli stessi interessi ed è nato un lavoro a quattro mani. I ruoli sono stati i medesimi per entrambi, anche se lui è regista teatrale e cinematografico.
Andrea Adriatico – Volevo fare un lavoro sulla storia dell’Hiv che è entrato in contatto con la mia vita, interferendo nei miei rapporti sociali. Un fenomeno della mia generazione ma non solo. Io e Giulio Maria siamo entrambi nati nel ’66, l’Aids ci ha segnato in maniera molto profonda e ha condizionato le nostre relazioni personali.

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Com’è stata la ricerca delle testimonianze? Il lavoro deve essere stato complesso: intervistate più di trenta persone tra medici, malati, giornalisti e altri, da Aiuti a Grillini, dalla Iardino a Stefano Benni…
G. M. C. – Di Aids si parla per sentito dire, frasi fatte e slogan anche giusti ma ci interessava il vissuto che c’è dietro alla malattia: siamo andati dalle persone che hanno avuto esperienze con l’Hiv in prima persona. Non c’è molto materiale d’archivio sull’Aids, sono pochi gli eventi pubblici testimoniati attraverso filmati. Non appena accendevamo la telecamera, gli intervistati non riuscivano a contenere il loro bisogno di raccontare.
A. A. – L’obiettivo era fare un documentario non a tesi, abbiamo provato a raccogliere delle testimonianze in maniera che costituissero un documento aperto, dal sommarsi di voci doveva venire fuori un’idea di verità. È un mosaico di 34 voci in un’ora e mezza, alcune polifoniche. C’è un sommarsi di idee: abbiamo provato a ragionare in base a una questione d’equilibrio, non volevamo fare un documentario educativo-terapeutico, a noi interessava studiare il fenomeno dal punto di vista sociologico-comportamentale.

Quanto tempo ha richiesto la lavorazione?
A. A. – Ci sono stati otto mesi di girato ma lunghissimo è stato il montaggio per ricostruire un racconto che procede per quattro decenni.

In sintesi, come si è evoluta la percezione della malattia, secondo voi?
A. A. – L’Aids ha coinciso con una mutazione sociologica molto interessante: negli anni Settanta si è percepito un tentativo di combattere l’inibizione e poi negli ’80 c’è stato recupero di posizioni e il bisogno di individuare negli altri il nemico, una strana coincidenza con l’avvento dell’Aids. Ha influito sui comportamenti molto di più di quanto si pensa.

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E la comunità omosessuale? Avete indagato anche il preoccupante fenomeno del bareback…
G. M. C. – Ogni vissuto merita un suo tipo di attenzione. C’è stato un processo di rifiuto del preservativo, molti dicono che se possono non lo usano, altri scelgono di non usarlo, vanno volontariamente verso il rischio, il pericolo. Abbiamo tentato di contattare qualcuno che pratica il bareback ma abbiamo avuto molte difficoltà.  È stato interpellato da noi uno studioso che ha fatto una ricerca a proposito, all’estero c’è una visione filosofica: il bareback per superare le barriere imposte dall’Aids. In Italia c’è più rimozione ma non si può liquidare condannandolo e basta.
A. A. – Sarebbe semplice liquidare il ‘bareback’ come qualcosa di negativo. Il fenomeno comincia col bisogno stesso negli anni 2000 di rinominare la parola sesso: è il sesso prima dell’Aids. L’epidemia ha posto il bisogno di richiamare il sesso in un altro modo. I veri barebackers sono avanti con l’età, hanno vissuto una grossa calata nel mondo dell’Aids e non ne vogliono più sapere. Le nuove generazioni, invece, non usano il profilattico per disattenzione. Ho amici infettati di recente perché hanno abbassato la guardia. Le persone che fanno bareback sono tantissime, esistono anche chat dedicate a loro. Non ci rendiamo conto delle proporzioni del fenomeno.

Che approccio hanno le nuove generazioni nei confronti dell’Aids?
A. A. – Non sanno che cosa sia stato, per questo non sono stimolati a cambiare stile di vita. Bisogna cercare di informare le nuove generazioni, fare il punto della situazione. Abbiamo intervistato alcuni studenti del liceo più blasonato di Bologna (il Galvani, n.d.r.): è emerso che sono omofobi e non vogliono il preservativo.

La questione politica, nel vostro doc, è affidata a Livia Turco…
G. M C. – Non ci interessava la polemica politica, volevamo far emergere i vissuti. La politica non si interesserà di Aids fino a quando non ci sarà una profonda consapevolezza della questione nella gente comune. Il lavoro da compiere è far emergere le responsabilità non solo politiche ma anche sociali e religiose.
A. A. – Livia Turco è paradossalmente la meno politica, è intervenuta perché è stata Ministro della Salute. Don Sardelli, invece, fa un vero atto politico: vorrebbe denunciare il Papa all’Aja per crimini contro l’umanità per aver negato il preservativo. È politico anche il caso del brano rap degli Assalti Frontali rimosso dal sito del Ministero della Sanità senza che loro potessero usufruire dei diritti.

Come mai la scelta artistica della stessa poltrona bianca con sfondi diversi su cui si siedono gli intervistati?
G. M. C. – Ci siamo chiesti: dove lo fotografi l’Aids? È dappertutto ma non si può raffigurare. Così abbiamo trovato questa soluzione: accomodare tutte le voci sullo stesso elemento che si ambienta in qualsiasi situazione.
A. A. – L’idea era costruire un piccolo set con la poltrona come filo di collegamento poiché l’Aids è ovunque.

Le musiche hanno un ruolo importante…
A. A. – Sì, sono straordinarie. L’autore è Massimo Zamboni, storico chitarrista dei CCCP. Angela Baraldi ha composto il pezzo originale ‘Nove ore’ appositamente per il documentario.

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