IL SESSO AL CINEMA

Dallo scandalo di Lolita ai coming out sul grande schermo. La cronistoria di Daniela Pecchioni e il saggio sul cinema gay di Roberto Schinardi raccontano quanto ci siamo "disinibiti".

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E finalmente il cinema scoprì il sesso e da quel momento non ha più potuto fare a meno di rappresentarlo in tutte le sue manifestazioni. Oggi nessun regista passa i titoli di coda senza aver prima mostrato un amplesso, uno strusciamento o quanto meno un bacio. Eppure non è sempre stato così. Pensate ai film americani degli anni cinquanta, a quelle coloratissime commedie con Rock Hudson e Doris Day nelle quali la camera dei coniugi aveva perfino i letti separati perché quello matrimoniale sottintendeva contatti peccaminosi (e in Italia tutti pensavano che le coppie americane dormissero davvero come fratello e sorella!).
Ancora prima, il cinema italiano del dopoguerra vietava ai minori un film del 1949 di Raffaello Matarazzo intitolato «Catene» nel quale Amedeo Nazzari dà la mano di soppiatto a Yvonne Sanson davanti all’ignaro marito. Scandalo! La scena rimandava a un tradimento consumato o da consumarsi chissà con quali torbide modalità e nelle coscienze di quell’epoca aveva quasi l’effetto di un film porno di oggi.
Di trasgressioni, perversioni, omosessualità, bisessualità, travestitismo, manco a parlarne. Non erano cose di questo mondo, non esistevano, almeno fino agli anni sessanta in cui la rivoluzione culturale, il ’68, gli hippy e le generazioni contestatrici dettero finalmente una smossa e i registi cominciarono, con enormi difficoltà, a scalfire la crosta di perbenismo che proteggeva fenomeni già esistenti ma impossibili da rappresentare, quasi fossero ferite collettive che solo il silenzio poteva guarire.
Due libretti della casa editrice fiorentina Cadmo, in libreria da pochi giorni, documentano con chiarezza (e senza annoiare) l’evoluzione sul grande schermo dell’argomento “sesso” visto non soltanto come rappresentazione dell’atto in sé ma come fenomeno sociale, dal momento che il cinema è sempre stato, più di ogni altra espressione artistica, lo specchio immediato e fedele della realtà.

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«Il sesso al cinema» di Daniela Pecchioni (Cadmo, 130 pp., 12 euro) racconta come sesso e sessualità sono stati presentati sul grande schermo e come il tema si sia a mano a mano modificato con l’evoluzione dei costumi.
L’autrice parte dagli albori, quando la censura faceva scempio della libera espressione artistica. Negli Stati Uniti, dal 1930, il codice Hays detta regole severissime sulla rappresentazione del corpo e dei rapporti fra uomo e donna. In Europa si azzarda di più e nel 1933 Hedy Lamarr appare completamente nuda nel film «Estasi» del cecoslovacco Gustav Machatý. I registi americani giocano con le allusioni e le metafore per rappresentare l’irrappresentabile, quelli europei si possono spingere oltre, come Luis Buñuel che nel 1930 realizza in Francia uno dei film più erotici della storia del cinema «L’età d’oro». Negli anni quaranta Rita Hayworth seduce l’America con uno streap-tease nel quale si toglie solo i guanti, mentre nella libertina Francia il regista Roger Vadim dà scandalo con «Piace a troppi» (titolo originale: «Et Dieu créa la femme») lanciando l’esordiente Brigitte Bardot in un mambo sensualissimo che ne fa un sex-symbol universale. Ma qualcosa nella società sta cambiando – anche in quella italiana – e il segnale arriva, come sempre, dal mondo dell’arte. Alla mostra sui dipinti di Renato Guttuso che si chiude in questi giorni a Bagheria, un pannello riporta la testimonianza del regista Giuseppe De Santis il quale ricorda che nel 1941 si pubblicava «Conversazione in Sicilia» di Elio Vittorini e Guttuso dipingeva la scandalosa «Crocifissione». L’anno dopo Luchino Visconti gira «Ossessione»: tre momenti di una medesima incalzante svolta che segnano il tempo e la necessità di rinnovamento. Poi nel 1948 arriva il film «Riso amaro» (per il quale il pittore siciliano eseguì delle gouaches) con un’indimenticabile Silvana Mangano e la straordinaria carica di sensualità che le mondine emanavano con i loro atteggiamenti. Nel frattempo la Corte Suprema degli USA sancisce che anche il cinema può beneficiare di libertà di espressione e nel 1956 «Baby doll» di Elia Kazan scatena il finimondo con accuse di indecenza e perfino di pedofilia. Gli anni sessanta sono quelli della svolta, il pubblico è più maturo e ricerca una sessualità più esplicita ed emozioni forti che lo scuotano dalla monotonia di tutti i giorni. È pur vero che in questo periodo l’erotismo nei film coincide con una denuncia della classe borghese e delle sue regole che il cinema contribuisce a smantellare: «Lolita» di Stanley Kubrik tratto dallo scandaloso romanzo di Vladimir Nabokov (che racconta della passione di un uomo maturo per una ragazzina) può essere il più rappresentativo di una serie di pellicole che colpiscono per la loro forza erotica e distruttiva.
Negli anni settanta Bernardo Bertolucci descrive l’annientamento dei valori borghesi con un film che classi agiate e benpensanti sentirono come un attacco terroristico nei loro confronti. «Ultimo tango a Parigi», con la celebre scena del rapporto anale tra Maria Schneider e Marlon Brando che si aiuta con un panetto di burro, provocò polemiche, censure, denunce e condanne penali. Poi arrivò il cinema di Pier Paolo Pasolini che, intrecciandosi con le sue vicende personali, causò un vero e proprio corto circuito nella cultura e nella società italiana.
Via via che ci si avvicina ai nostri giorni, nudi e sessualità scandalizzano sempre meno. Oggi siamo nella situazione paradossale che troppo sesso al cinema fa male: cioè, la troppa libertà di espressione non stimola più le idee anche se ha permesso di mettere in scena realtà ancora tabù presso una buona fetta di pubblico. Prendiamo per esempio l’omosessualità per la quale il cinema sta facendo moltissimo per “aprire le menti” degli spettatori più intolleranti verso l’argomento.

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L’ottimo libro del nostro Roberto Schinardi (cura la rubrica di gay.it sul cinema) «Cinema gay, l’ennesimo genere» (Cadmo, 188 pp., 15 euro), è la prima esauriente ricognizione critica su tutta la produzione cinematografica nazionale e internazionale che tocchi l’argomento omosessualità. Se consideriamo il cinema gay come genere, appunto, bisogna tener presente che esso sottintende tre sottogeneri: il cinema omosessuale maschile, il cinema lesbico e quello trans. Il genere omosessuale, degli ultimissimi anni non è facilmente riconoscibile poiché i film gay non sono più girati solo in ambienti omo come «Cruising» di William Friedkin o «Il vizietto» di Edouard Molinaro. L’individuazione è più complessa perché i codici tipici del cinema gay (principalmente la presenza di omosessuali immediatamente riconoscibili) si mescolano ai generi istituzionali: in pratica, si chiede l’autore, basta un personaggio secondario a fare un film gay? La questione e quanto mai sfumata e indefinibile, tanto più che ultimamente si moltiplicano i film che si avvicinano alla sensibilità del cinema gay senza essere pienamente film gay. Schinardi risponde alla domanda presentando e discutendo tutta (ma proprio tutta!) la produzione cinematografica gay, compresi i tre sottogeneri menzionati prima e la cinematografia asiatica sconosciuta al grande pubblico. Veniamo dunque a conoscenza di film dei lontani anni venti in cui l’omosessualità veniva derisa attraverso attori come Fatty Arbuckle che suscitavano l’ilarità travestendosi da donna (anche Stan Laurel o Oliver Hardy, al secolo Ollio e Stanlio, sfruttarono il travestitismo per far ridere). Il personaggio del sissy, cioè dell’uomo effeminato, è presente anche nel celebre «Mago di Oz» di Viktor Fleming: il leone codardo la cui vera indole corrisponde all’esatto opposto della sua immagine sociale di animale dominatore. Mentre il primo film della storia con un personaggio lesbico è probabilmente «Lulù – Il vaso di Pandora» di Georg Wilhelm Pabst del 1929 interpretato dalla splendida Louise Brooks (l’attrice con l’inconfondibile caschetto nero) che inaugura il filone, percorso anche dalla letteratura di quegli anni, della lesbica bella e dannata. Fino agli anni ottanta gli omosessuali nei film o sono ridicolizzati o finiscono male. Poi avviene il miracolo. In America si cominciano a realizzare commedie sentimentali dichiaratamente gay (una delle prime, se non la prima in assoluto, è «Making love» di Arthur Hiller del 1982). Il cinema trae finalmente beneficio dalle dure lotte combattute negli anni settanta dai gay e dalle lesbiche americane e la tendenza si estende negli altri paesi. Per la verità in Europa i geniali Pedro Almodóvar e Rainer Werner Fassbinder avevano già cominciato a introdurre il discorso ma lo spagnolo era ancora troppo provocatorio e il tedesco troppo colto per essere recepiti internazionalmente. E poi, si sa, la cinematografia americana più potente e meglio distribuita fa scuola, e l’omosessuale viene finalmente “sdoganato”. Sam Mendes nel suo capolavoro «American Beauty» del 1999 racconta della dissoluzione della famiglia e arriva addirittura a proporre come unica coppia felice quella formata da due gay borghesi. In Italia Cristina Comencini fa più o meno la stessa cosa con il personaggio gay interpretato dal bravo Luigi Lo Cascio in «Il più bel giorno della mia vita» del 2002 il quale grazie al quasi involontario coming out in famiglia raggiunge finalmente un equilibrio che tutti gli altri suoi familiari etero non hanno.
Due ottimi saggi di critica cinematografica, distinti ma complementari, per approfondire il tema del sesso e della sessualità tanto importanti al cinema ma anche nella vita di tutti i giorni.

di Alberto Bartolomeo

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