Sono cresciuto in una famiglia dove la parola sesso non veniva pronunciata neppure per distinguere i genere maschili e femminili e quando da piccolo appariva all’improvviso una scena di un film in tv dove l’interazione dei protagonisti andava oltre la stretta di mano, mia madre scattava parandosi davanti lo schermo per proteggere la mia innocenza di bambino.
Questo aveva fatto sì che sviluppassi lo stesso senso del pudore di un amish e mi ci vollero anni per spogliarmi di dosso quest’idea sessuofobica da medioevo.
Quando andai a vivere da solo, elessi il “Super Bar” come mio locale preferito, non solo perché piuttosto frequentato tutti i giorni della settimana ma soprattutto perché a 3 minuti a piedi da casa mia, il che aveva un duplice vantaggio: potevo scendere con le ciabatte e le chiavi in mano come solitamente si fa quando si va a ritirare la posta nella cassetta e, qualora avessi incontrato un “one night stand man”, avrei potuto dirgli “abito qui dietro” potendo confermare con la realtà dei fatti che non era solo un modo di dire.
Era qualche mese però che non andavo più al Super e quel mercoledì, entrai salutando il cassiere con la solita familiarità.
Presa la mia drink card stavo per oltrepassare la soglia quando mi sento dire: “lo sai che adesso il mercoledì è naked?”.
In quel momento mi rivenne su l’immagine di me da bambino, nudo sulla sedia dello spogliatoio della piscina mentre imponevo a mio padre di allestire una tenda berbera fatta di asciugamani per proteggere il mio pudore evitando che anche solo un lembo della pelle venisse mostrata ad occhi umani.
“Naked, che intendi?”, gli chiesi con la finta ingenuità di un esaminando che, pur sapendosi impreparato, prova a riformulare la domanda, tanto per temporeggiare.
“Intendo: nudo”, mi fece un po’ stupito conoscendomi per essere un cliente piuttosto “disinibito”.
“Ma anche le mutande?”, provai un’ultima volta.
“Naked: nudo!”, fu la sua ultima risposta.
Nel dubbio se tornarmene a casa a vedere qualche documentario sulla lince della Siberia su Nat Geo o affrontare il fantasma del mio pudore che mi attanagliava dalla pubertà feci un cenno d’assenso con il capo e procedetti alla spoliazione. Ora non vorrei dare all’evento un tono epico del tutto inappropriato: non stavo affrontando una prova con me stesso, non dovevo attraversare cerchi di fuoco, camminare sui vetri infranti o affrontare una belva feroce come in un rito di passaggio indigeno verso la maggior età, ma in ogni caso sentivo un po’ il senso della sfida e con esso, l’intenzione di abbattere un limite mentale che mi portavo dietro da quando ero ragazzino.
Il cassiere mi diede quindi una busta nera, di quelle che si usano per la mondezza (certo, anche loro, avrebbero potuto investire in un contenitore che avesse un’aria meno sordida). Per farmi coraggio pensai: "In fondo, in un naked party succede lo stesso di quando conosci qualcuno, solo che si inverte la successione degli eventi: invece di conoscersi e poi spogliarsi qui ci si spoglia e poi ci si conosce".
Ovviamente potevo tenere le scarpe, con il calzino, che se c’è una cosa che avevo sempre trovato antierotico è il nudo maschile con le scarpe ai piedi (motivo per il quale non trovo particolarmente sexy i go go boy e i partecipanti ai concorsi di bellezza maschile).
Ad ogni modo, entrai. Per fortuna la luce era fioca, come si conviene, nascondendo così il rossore imbarazzato che aveva infiammato le mie guance. Ora non che dentro ci fossero più uomini di quanti non mi avessero già visto come mamma mi aveva fatto, il punto era che erano tutti insieme e in un contesto piuttosto inusuale. Senza contare tutte le considerazioni e i confronti che si fanno solitamente anche negli spogliatoi della palestra: “è più in forma di me”, “dovrei buttare qualche chilo”, “guarda quello come non si vergogna” e, soprattutto: “ce l’ha più grosso del mio!”.
Devo dire che la condizione di nudità condivisa, dopo un po’ mi fece sentire meno “oddio, stanno tutti guardando me”, forse per un istinto ancestrale da uomini della pietra. Ma i problemi iniziarono a venire poco dopo.
Non avendo tasche e non sapendo come gestire le braccia, iniziai a ordinare un numero incalcolabile di drink per avere qualcosa da tenere comunque in mano e sembrare meno impacciato con la conseguenza che di li a poco iniziai a vedere doppio, qualsiasi cosa.
Presi a vagare come un’anima del purgatorio perché mi rifiutavo di poggiare il culo nudo su uno sgabello in simil-pelle dove ero certo avrei raccolto più funghi che dopo una pioggia. Ma la cosa peggiore che mi potesse capitare, fu incontrare persone che conoscevo. Per carità, eravamo tutti lì, tutti con lo stesso scopo e nelle stesse condizioni ma avessi potuto avrei voluto che una voragine si aprisse sotto i miei piedi e mi si richiudesse poi sul capo facendomi sparire per sempre. Le mie preghiere vennero però disattese e mi ritrovai a dissimulare scioltezza iniziando a chiacchierare con un ragazzo, che conoscevo di vista, della contingenza economica, di un film visto al cinema, di come raggiungere il lavoro con i mezzi pubblici fosse un’impresa, mischiando argomenti che nulla avevano in comune se non il disperato tentativo di non pensare che ero nudo, con il pene floscio pendente in un bar di periferia e che il tutto sembrava la scena di un film dei Monty Pyton.
Non resistetti molto di più e congedato il conoscete con un “ci vediamo dopo” (che sembrava però un: domani mi trasferisco a Oslo e non mi vedrai mai più), raggiunsi l’uscita barcollando per l’alcol e, raccolto il mio sacco della spazzatura, pretesi dal cassiere la rassicurazione che solo il mercoledì fosse la serata naked.
“Sì, ma se vuoi il sabato c’è l’underwear party”.
Da allora quello restò sempre il mio bar preferito ma solo di lunedì, martedì, giovedì, e domenica (il venerdì era chiusura settimanale).
di Insy Loan ad alcuni meglio noto come Alessandro Michetti
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