Ferzan Ozpetek osa l’inosabile. Gira un melò estremo alla Matarazzo (1909-1966), ex fattorino romano autore di cult sentimental(oid)i quali “La schiava del peccato” e “Amore mio”, poi ‘convertito’ al genere ‘telefoni bianchi’ sulla borghesia medio-alta. Non se ne facevano da cinquant’anni. Riprende volti, corpi e sentimenti senza filtro, spesso in primo piano, belli e statici, come in un fotoromanzo alla Grand Hotel o Kolossal. Vampate, sudore, lacrime. Sentimenti estremi, emozioni non trattenute: tutto in faccia allo spettatore. E così “Allacciate le cinture” ha diviso il pubblico. Donne tradite e uomini ebeti che corrono dietro a piccole gonne di parrucchiere vitali e sfrontate (la Maricla di Luisa Ranieri, quante ne conosciamo!). Ecco le reazioni contrapposte: c’è chi grida alla ‘Ozpatacca’, chi commenta indignato in sala, si sfoga online e chi invece si emoziona, si appassiona, scrive frasi entusiaste. È il cinema che scuote, bellezza. Nel bene e nel male. Intanto Ferzan incassa più di un milione e mezzo di euro con 414 copie e un’ottima media di 3800 euro, classificandosi secondo nel weekend – meglio di “Magnifica Presenza”, meno di “Mine Vaganti” che aveva sfiorato i tre milioni dietro a “300: L’Alba di un Impero” che in quattro giorni arriva a quasi due milioni e mezzo – mentre “La Bella e la Bestia” scende in terza posizione con un milioncino (ma sfiora complessivamente i tre milioni e mezzo).
E su Twitter parte pure la polemica con Beppe Severgnini che spara ad alzo zero stroncando il film e invitando il pubblico a non andare a vederlo. Così il regista, giustamente, gli risponde: “Capisco che non ti sia piaciuto ma addirittura invitare di evitarlo?”.
Per noi, invece, è gia cult: la chiappona polposa di Francesco Arca, dallo sguardo fisso alla Franco Gasparri, bello come un Dio fenicio, che sguscia dallo schermo e ci fa felici; quelle due fossette sopra i glutei guizzanti, sempre lì a sobbalzare sul letto (persino in ospedale con malata terminale, tabù assoluto e quindi scandalo garantito); quel pacco inquieto, che a lei (Kasia Smutniak, forse la più bella attrice italiana in circolazione dopo la Ramazzotti, pure calva e scavata per cancro, speculare alla Egle con mesiotelioma della Minaccioni, un clown triste quasi teatrale) fa venire una vampata come nemmeno nel centro di Manila in pieno agosto; quel polso rotto del dolce e bellissimo Filippo Scicchitano, gay pettegolo e irrisolto sentimentalmente (Ferzan ci disse: “Noi gay siamo delle ‘lavannare’ e mettiamo le nostre cose sulla piazza!”) che risveglierà gli ormoni dei più giovani ma non solo. E poi, eccole, le più svalvolate: Anna e Viviana, ossia Carla Signoris e Elena Sofia Ricci, coppia lesbica sui generis e ultra-genere, scombiccherata ma inaspettatamente complementare. La prima crea gioielli in casa ed è la mamma razionale e dominante della protagonista Elena, scopertasi lesbica dopo un lungo matrimonio; la seconda ha qualche disturbo di personalità e crisi ipomaniacali, è sempre in giro per il mondo e si fa chiamare coi nomi più diversi.
Si può dire quello che si vuole su ‘Allacciate le cinture’ ma non si può negare il tentativo di rifare al carboncino un cinema che negli anni Cinquanta riempiva i cinema di operaie, casalinghe, pensionate, nonne, gay soli a cui sberluccicavano gli occhi nel vedere tutto quel sentimento traboccare così spudoratamente naif. Certo, il pubblico più smaliziato può sentire puzza di ammiccamento ma è innegabile che Ozpetek – e Gianni Romoli che scrive con lui la sceneggiatura – cerchi a suo modo di reinterpretare un genere in disuso nel quale è maestro (e la svolta narrativa del flashback nel finale funziona, eccome). È cinema senza freni, senza ‘comfort zone’, senza uscite di sicurezza. Poi arriva una canzone capolavoro come ‘A mano a mano’ di Rino Gaetano, e tutto si zittisce.
‘Allacciate le cinture’ si può amare alla follia o detestare al punto di urlare in sala: ma va visto, prima possibile.
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