Incontriamo al Festival Gay di Torino una coppia di ospiti eccellenti. Sono qui per l’omaggio a Derek Jarman che gli organizzatori hanno dedicato al grande regista inglese in occasione del decimo anniversario della morte. Sono i suoi angeli sopravvissuti: James Mackay, volto bonario alla Timothy Spall da inglese serio e lavoratore, era il produttore di Jarman, il suo braccio destro. Ha contribuito non poco a farne conoscere le opere in giro per il mondo.
Leonardo Treviglio ha fatto invece innamorare un’intera generazione di gay nei panni del santo martirizzato più omosessuale della Storia della Chiesa in quell’esplosiva opera prima estetizzante, barocca e spudoratamente erotica che è ‘Sebastiane‘. Ancora oggi, a quasi trent’anni di distanza, conserva un notevole fascino, è un uomo ancora bello, dai modi raffinati ed eleganti.
Entrambi hanno concesso un’intervista esclusiva a Gay.it. Iniziamo da James.
Come hai conosciuto Jarman?
James Mackay – Alla fine degli anni Settanta. Curavo a Londra un laboratorio per i film d’avanguardia. Avevo visto alcuni suoi Super8 e mi erano piaciuti. Jarman aveva provato a inserirli nei circuiti regolari ma il formato non lo consentiva e le copie che aveva realizzato erano venute male. Trovai dei soldi in Germania per trasferirli in 16mm e in due anni facemmo cinque riversamenti. Lui aveva già fatto ‘Sebastiane’ e ‘Jubilee’.
Come mai in Germania?
J. M. – Lì i suoi film erano abbastanza apprezzati, aveva anche avuto un buon riscontro critico. In Inghilterra inizialmente non era considerato.
Poi nel 1985 hai prodotto ‘The Angelic Conversation’…
J. M. – Sì. E’ stato finanziato dal British Film Institute. Inizialmente doveva essere distribuito in un piccolo circuito d’essai ma è stato poi acquistato per le sale tradizionali. In Giappone è andato molto bene e in Inghilterra abbastanza.
In Italia non è arrivato, però…
J. M. – No, l’Italia a quel tempo non era ancora pronta.
Solo con ‘Caravaggio’ è iniziato a circolare il nome di Jarman in Italia ma non l’hai prodotto tu, vero?
J. M. – No, ho solo collaborato. Dopo l’arrivo di ‘Caravaggio’ in Italia ci sono stati omaggi e rassegne dedicate a Derek.
Hai poi prodotto ‘Last of England’ e ‘The Garden’…
J. M. – ‘Last of England’ l’abbiamo venduto alla Rai. Hanno anche pagato abbastanza. Ma è stata una cosa strana: hanno imposto che non finisse al cinema. Per ‘The Garden’ abbiamo anche avuto il premio della Giuria Ecumenica a Berlino.
E ‘Blue’, film senza immagini oltre a uno sfondo monocolore, è costato poco?
J. M. – Non così poco. Un po’ meno di 100.000 sterline. Abbiamo dovuto pagari attori come Nigel Terry e Tilda Swinton, che comunque non hanno preso molto, e poi la musica, il missaggio sonoro, il laboratorio per la postproduzione… Per fortuna un film così non era stressante per Derek e potevamo fare pause di vari giorni.
E ‘Glitterbug’?
J. M. – Abbiamo iniziato subito dopo ‘Blue’. Siamo stati finanziati dalla BBC. Era un progetto che Derek aveva da anni e l’avrebbe voluto più lungo ma la tv impose una durata massima di un’ora. Quando l’abbiamo finito Derek stava già molto male.
E’ vero che era ormai cieco?
J. M. – No, scrivono sempre questa cosa ma non era vero. Lui vedeva ancora, quando è tornato da New York a ottobre lavoravamo al video i cui colori erano brillanti e lui riusciva a vedere ancora bene. Continuava anche a fare i suoi ‘diari personali’ che iniziò a tenere nell’82 ma non li fece mai vedere a nessuno. Alcuni si vedranno nella retrospettiva a Roma.
Quindi hai del materiale inedito di Jarman che non ha mai visto nessuno?
J. M. – Sì. Ma lavorare su questo materiale costa molto.
E in che rapporti umani eri con Jarman?
J. M. – Era molto simpatico. Mi piaceva molto la sua idea di cinema. Io ero uno studente di arte e le sue opere erano molto liriche. A quel tempo non erano molto apprezzate. Adoravo la sua libertà nel girare in Super8. Era molto generoso, di spirito e di tempo. Gli piaceva l’onestà, aveva un’idea politica della sessualità.
Leonardo Treviglio – Questo solo negli anni Ottanta. Negli anni Sessanta era molto riservato, solo dopo si politicizzò.
E tu, Leonardo, come hai conosciuto Derek?
L. T. – Stavo lavorando a Camden Town in uno spettacolo, ‘The Divine Game’, fatto con artisti indiani e attori del Living Theatre. Derek venne in camerino e mi parlò di un vago progetto di cui non aveva nessuna sceneggiatura né alcun finanziamento sicuro. Io poi tornai in India per due anni. La battuta di Justin in Sebastiane: “Come balli bene, Sebastiane” a cui rispondo: “Sì, ho avuto un buon insegnante in India” deriva da questa esperienza. Derek chiedeva sempre: “Ma oltre a recitare che sai fare?” ed era aperto a contributi esterni. A volte personalizzava così i film, ma altre volte erano momenti di sbandamento che lui invece trovava affascinanti.
Come sono andate le riprese di ‘Sebastiane’?
L. T. – Abbiamo girato a Cala Domestica, un posto meraviglioso vicino a Iglesias. Era di proprietà di una società formata da tre famiglie, una delle quali era quella di Ferdinando Scarfiotti, uno dei massimi scenografi italiani. Propose alla produzione una scenografia naturale già fatta, c’è anche un suo ringraziamento nei titoli di coda.
E come esperienza lavorativa? Lasciava libertà agli attori?
L. T. – Lasciava abbastanza libertà. ‘Sebastiane’ era il suo primo lungometraggio. C’era una forte conflittualità con Paul Humfress (aiuto regista e cosceneggiatore, N.d.R.), una figura non piacevole, aveva l’aria di quello che la sapeva lunga perché aveva fatto uno o due film per la tv e si decorava di questa cosa.
In quanto tempo l’avete girato?
L. T. – Io mi ricordo quattro settimane anche se oggi leggevo un testo che riporta la durata di sei.
E la scelta di Derek di farvi recitare in latino?
L. T. – Dava una sorta di importanza alle immagini. Anche se è un latino con accento inglese che può spiazzare chi lo conosce.
E’ stato faticoso?
L. T. – Sono stato nudo per tre giorni, col vento che continuava a soffiare. Sul set era venuto pure Carlo Rambaldi come responsabile degli effetti speciali. Le frecce che mi colpiscono in realtà seguivano delle guide lungo alcuni fili che terminavano con una specie di turacciolo per non ferirmi. Uno di questi si tolse e una freccia si conficcò in una gamba…
Dai dolori passiamo ai piaceri: è vera la leggenda secondo cui sul set di ‘Sebastiane’ le riprese finivano in orgia?
L. T. – Ah, ah, ah! Ma no, si lavorava molto. L’unica che poi scopava era una collaboratrice di Jarman che si fece metà set, poiché metà degli attori erano eterosessuali!
In che rapporti sei rimasto con Derek?
L. T. – Ottimi anche se poi non ci sentivamo molto spesso. Era una persona superattiva. L’ultima volta che venne a Roma andai a trovarlo in hotel. Al telefono un suo collaboratore mi disse: “Sali su che stiamo facendo uno show!”. Andai in stanza. Derek era completamente nudo, sdraiato sul letto, in coma. Intorno c’erano vari ammiratori. Il collaboratore gli diceva: “Derek, allora? Vuoi morire a Roma o a Londra?”. Non mi riconobbe ma lo risentii quando era a Londra e si era ripreso: mi disse di avermi sognato. Poi mancò.
Hai anche lavorato sul set di un altro film in costume, ‘Titus’ di Julie Taymor nel ruolo di Caius. Ce ne parli?
L. T. – Un’esperienza tremenda. Era una produzione ovviamente molto più ricca. La Taymor è una vera ‘workaholic’, una drogata di lavoro. Lavoravamo sedici ore al giorno. Gli unici momenti memorabili consistevano nell’ammirare Anthony Hopkins in qualsiasi momento del giorno, all’alba come di notte, dopo ore e ore sul set, sempre imperturbabile e professionalissimo.
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