L’ultima cinefrontiera l’abbiamo vista al Festival di Cannes, nella scena più estrema in assoluto: una sodomia esplicita fra il protagonista del curioso dramma d’autore Rester Vertical e un anziano moribondo, definita dal primo “un suicidio assistito”. Cioè la massima espressione di come si possa simboleggiare la crasi fra eros e thanatos, amore e morte, e condensarla in un’immagine d’impatto.
Il regista è l’emergente Alain Guiraudie che tre anni fa aveva choccato e conquistato la Croisette col bellissimo thriller naturista Lo sconosciuto del lago, capace di tensioni hitchcockiane in un cruising immerso nelle fratte dove il sesso gay è davvero en plein air e senza inibizioni. Da sempre il cinema queer è all’avanguardia per quanto riguarda lo sperimentalismo legato alla rappresentazione esplicita del sesso: si pensi alle cineprovocazioni di Jonas Mekas o Andy Warhol negli anni Sessanta o a cult censuratissimi come Cruising di William Friedkin (1980). Ma oggi il cinema sta attraversando un’ondata di forte neopuritanesimo e il problema non è tanto artistico quanto commerciale: ormai non c’è più quasi nessun produttore che osa finanziare opere con scene hard che renderebbero difficile la distribuzione tradizionale, inficiandone il potenziale di cassetta. Così il fenomeno tende a rimanere underground e cerca la visibilità nei festival specializzati anche se qualcosa sta cambiando. Se pensiamo che già nel 1998 l’orgia esplicita nel disturbante Idioti di Lars Von Trier iniziò il processo di sdoganamento del sesso nel cinema d’autore e nello stesso anno il visionario Happy Together di Wong Kar-Wai col suo incipit di sesso gay vinse il premio per la migliore regia, il processo di ‘normalizzazione’ dell’hard ha radici lontane.
Ma ancora una volta è il cinemondo queer ad arrivare prima, con autori ancora di nicchia ma adoratissimi come l’anarco-punk canadese Bruce LaBruce che dai primi anni Novanta rappresentò il sesso esplicito come arma di liberazione e affermazione di sé (No Skin Off My Ass, Super 8 ½, Hustler White) per poi approdare al Festival di Locarno nel 2010 e fare scandalo col suo porno-horror necrofilo L.A. Zombie che arrivò a sdoganare la prima star del porno gay, François Sagat, poi adorata da autori quali Christophe Honoré, il quale lo volle protagonista assoluto del suo erotizzante Homme au bain.
Oppure pensiamo a un valido autore come il portoghese João Pedro Rodrigues che fece sobbalzare il pubblico del Festival di Venezia nel 2000 col feticismo leather e scatologico del suo O Fantasma in cui uno spazzino di Lisbona si innamora di uno sconosciuto che inizia a perseguitare degradando il proprio desiderio a pulsioni sempre più animalesche e masochistiche. Ma una rappresentazione del sesso più vitale, seppur circondata da un’aura decisamente malinconica, si vide nel 2006 ancora una volta sulla Croisette, fuori concorso, nello scandaloso Shortbus – Dove tutto è permesso di John Cameron Mitchell ambientato in un locale notturno dove si pratica liberamente sesso etero e gay ma si svolgono anche cinemaratone dedicate a Gertrude Stein.
Il tono è quello della commedia alla Woody Allen in chiave queer, con sessuologhe anorgasmiche, coppie gay alla ricerca di un terzo e bizzarre eiaculazioni che modificano in chiave artistico-provocatoria quadri astratti alla Jackson Pollock. Ci sono stati anche tentativi di prodotti cinematografici da parte di case pornografiche gay successivamente distribuiti nel circuito dei festival lgbt in versioni ‘epurate’ delle scene più forti, come nel caso dell’intimista I Want Your Love di Travis Mathews finanziato da NakedSword.com, film che non cerca la provocazione né lo choc nel pubblico, ma semplicemente si astiene dal censurare le scene di sesso in storie sentimentali piuttosto ordinarie tra ragazzi omosessuali americani. Va detto anche che la massiccia produzione queer destinata alla tv, dove la censura è piuttosto potente, ha ‘frenato’ la diffusione di film di questo tipo: basti pensare a quanto siano pudiche serie di relativo successo quali Queer As Folk oppure Looking.
Il recente dramma francese Théo e Hugo dans le même bateau di Olivier Ducastel e Jacques Martineau inizia con una dirompente scena di venti minuti ambientata nel sex club parigino L’Impact, dove in un’ammucchiata virata in rosso fuoco, che non lascia nulla all’immaginazione, si conoscono i due protagonisti (Geoffrey Couët e François Nambot) coinvolti poi in una ronde notturna per Parigi quasi in tempo reale: naturalmente nella cattolica Italia non è riuscito a trovare una sua distribuzione, mentre in Francia è uscito nelle sale tradizionali.
A dimostrazione però che la forza dirompente dell’eros ha ormai perso la sua valenza rivoluzionaria anche grazie alla facile reperibilità su Internet, dove il porno si è diffuso esponenzialmente, è per esempio il fatto che un melò dichiaratamente hard, strombazzatissimo, approdato anch’esso al Festival di Cannes l’anno scorso, Love dell’argentino Gaspar Noé, non ha scandalizzato nessuno e annoiato tutti: sicuramente la generazione cresciuta a YouPorn e simili non si turba più per il sesso esplicito e forse c’è proprio bisogno del cinema d’autore per tentare di rendere espressivo uno dei generi più codificati in assoluto, proprio quello pornografico. Un duro compito, non c’è che dire.
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