HOLY SMOKE, LA GUERRA DEI SESSI

Kate Winslet selvaggia post-Titanic che bacia una ragazza per rivendicare il suo diritto di scelta. Harvey Keitel baldanzoso e sexy, che vaga nel deserto australiano vestito da donna. Un film bizzarro e curioso.

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Vi ricordate di Kate Winslet, l’imbellettata e splendida aristocratica altera Rose pronta ad abbandonare tutto e fidarsi ciecamente del signor nessuno Jack-Leonardo di Caprio nell’intramontabile superkolossal Titanic? Bene, dimenticatevela. Kate è andata nella lontana Australia e si è scrollata di dosso qualsiasi orpello divistico e hollywoodiano per fare ‘Holy Smoke’ di Jane Campion, uno stranissimo oggetto-film che vede la luce nelle sale italiane ben un anno dopo la presentazione al Festival di Venezia. Kate è Ruth Barron, una ragazza australiana che dopo un viaggio in India, la permanenza in un ashram e l’infatuazione per un ‘Baba’ locale, si converte al buddhismo e decide di dedicare la sua vita alla meditazione spirituale.

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La madre, preoccupata per la scelta della figlia, si inventa una malattia mortale del padre, va a trovarla in India e la convince a tornare in Australia per vedere il genitore ma una volta a casa lei scopre l’inganno e minaccia di andarsene per sempre. A questo punto la composita famiglia di Ruth (tra cui il fratello gay con relativo fidanzato) decide di assoldare P.J. Waters – Harvey Keitel, baldanzosissimo – un ‘deprogrammatore’ prezzolato, cioè una sorta di ‘raddrizzatore di anime’ arrivato al 190° caso da risolvere, esperto di adepti e sette che promette di convertire la ragazza in soli tre giorni.

I due si rinchiudono in una casupola in mezzo al deserto australiano, imparano a conoscersi e in un certo senso ad amarsi ma la situazione si ribalta: sarà P. J. ad aver bisogno di liberarsi dall’ossessione Ruth. La Campion, dopo capolavori densi e perfetti come ‘Lezioni di piano’ o ‘Ritratto di signora’, ritorna con questo film curioso e bislacco alle atmosfere bizzarre dei suoi esordi: la coloratissima Australia, le esagerazioni kitsch e grossolane delle famiglie numerose e scombinate di ceto medio-basso, i personaggi femminili un po’ schizoidi sull’orlo di una crisi di nervi. Se all’apparenza sembra una commedia a tratti insensata (c’è spazio per scenette comiche accelerate, flashback con fidanzati dal sorriso smagliante, visioni mistiche per nulla religiose con un gusto camp che ricorda i disegni leccati e coloratissimi di Pierre e Gide), alla Campion più che parlare di sette o di fanatismo religioso interessa in realtà fare un discorso molto profondo sulla guerra dei sessi: lo scontro frontale tra P. J. e Ruth diventa la metafora di un dialogo sempre più difficile tra uomo e donna, di un disagio esistenziale che si può guarire se l’uomo impara a capire l’altro sesso tirando fuori e analizzando la sua parte femminile di cui non si deve vergognare. Viceversa la donna per la Campion ha un’arma potentissima con cui può farsi valere sull’uomo: il sesso.

Ma forse alla fine basta ‘essere gentili’, come scrive col rossetto sulla fronte di Ruth l’addomesticato P. J. alla fine di una schermaglia che non è altro che amorosa. Kate Winslet nel ruolo di Ruth dà tutta se stessa: si spoglia completamente nella notte mostrando il suo corpo florido rischiarato da un sari che brucia, si fa la pipì addosso per far avvicinare gli uomini, bacia appassionatamente una ragazza in discoteca per far rivalere il suo diritto di scelta, si diverte a vestire e truccare da donna un Harvey Keitel prima sicuro di sé e poi spaesatissimo. E vedere il macho tarantiniano Harvey Keitel con un abito lungo rosso vagare nel deserto in preda ad allucinazioni fa un certo effetto. La Campion resta una delle registe più dotate nel mostrare il mondo da un’ottica femminile e soprattutto un mondo che tende a ‘femminilizzarsi’: le sue eroine non plasmano solo se stesse ma anche il mondo circostante e così facendo perpetuano il loro messaggio d’amore.

La sceneggiatura di ‘Holy Smoke’ è stata scritta a quattro mani oltre che da Jane Campion anche da sua sorella Anna ed è diventata un libro;

al Festival di Venezia del ’99 il film – che non fu premiato – divise equamente i critici in sostenitori e detrattori.

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