Un record potrebbe già essere suo: il più anziano personaggio lesbico mai apparso sul grande schermo. Stiamo parlando dell’ultraottuagenaria Françoise Bertin, veterana attrice francese molto amata da Resnais e Chabrol che nel discontinuo melò famigliare bergmaniano Racconto di Natale di Arnaud Desplechin interpreta il piccolo ruolo della buffa Rose-Aimée, ex-fidanzata della defunta bisnonna del clan Vuillard.
Siamo a Roubaix, comune del nord della Francia non lontano dalla città natale del regista, la frontaliera Lille. Occhioni sgranati in una minuta testolina a fiammifero, cravattino d’ordinanza butch su un’elegante camicia di seta lucida, la dolce Rose-Aimée viene invitata alla cena natalizia e accolta dal caloroso affetto di tutti gli strambi componenti di questa famiglia altoborghese di artisti un po’ pazzoidi. In realtà, del suo rapporto con l’avola trapassata non si sa nulla di più (viene solo inquadrata una foto sbiadita in bianco e nero che ritrae le due donne) ma sarà proprio Rose-Aimée, che porta in regalo una simbolica lampada vintage, a rivelare alla moglie dell’ultimogenito Ivan (Melvil Poupaud, il fotografo gay di Il tempo che resta) un segreto riguardante il cugino pittore Simon che la porterà a tradire il marito proprio la notte di Natale.
Famiglia allargata discretamente disfunzionale, quella dei Vuillard: la matronale matriarca Junon (una Deneuve prevedibile, altera e disincantata) è affetta da una rara malattia genetica che, in passato, ha portato alla morte il bimbo primogenito Joseph per mancanza di donatori compatibili: ma nel caso di Junon sia il figlio ribelle Henri che il nipote psicotico Paul si rivelano adatti al trapianto di midollo che potrebbe salvarle la vita. Tutti si ritrovano così a casa Vuillard per le feste natalizie, ma il clima è di crescente tensione anche perché la figlia depressa Elizabeth ha ostracizzato l’instabile Henri traumatizzato per la morte della moglie e non gli parla da anni.
Il regista tenta in tutti i modi di evitare gli stereotipi legati alla classica situazione del raduno famigliare natalizio, e in parte ci riesce (ma certe sfiziose trovate di regia, come gli zoom a cannocchiale o i dialoghi diretti in camera sembrano un po’ giustapposte) aiutato da un valido cast con in testa un eccelso Mathieu Amalric in un ruolo per nulla scontato e a rischio di maniera (era il protagonista paralizzato dell’ottimo Lo scafandro e la farfalla).
Certo, non manca una notevole dose di snobismo tipicamente francese, per cui chi non ama il cinema transalpino se ne stia alla larga; in particolare, può dare molto fastidio che la malattia mortale venga trattata con una leggerezza eccessiva, allo scopo di sdrammatizzare la situazione ed evitare ogni patetismo: la Deneuve, che nel film ne è colpita, ne parla come se fosse la sua crema per il viso o l’ultima tinta per capelli, tant’è che è sempre truccatissima e ben pettinata anche a letto. Ma l’insieme ha una sua coerenza e il gran bel finale (a suo modo riappacificatorio ma per nulla melenso) gli regala uno scatto d’ala notevole. Infine, rivedere la deliziosa Chiara Mastroianni, nella vita figlia e non nuora proprio della Deneuve, è sempre un piacere, e la sua somiglianza col padre Marcello, soprattutto nello sguardo, anche col passare degli anni, è davvero impressionante.
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