Lo ideò Robert Redford 38 anni fa, in un piccolo centro montano dello Utah, la nevosa Park City, ed è diventato un’istituzione cinematografica mondiale. Non solo perché il Sundance Film Festival è il più importante film festival dedicato alla produzione indipendente internazionale ma anche perché è il primo Festival dell’anno e, strategicamente, è diventato un trend setter per quanto riguarda tendenze e gusti delle nuove generazioni, le più inclini a usufruire di piattaforme quali Kickstarter o minicordate produttive per arrivare alla realizzazione di un lungometraggio. Siamo oltre il giro di boa, ormai (il Festival è iniziato il 21 e dura dieci giorni), e dal punto di vista LGBT sta presentando a cascata una vera e propria valanga di film a tematica queer, in tutto una ventina: prevalgono le commedie, lo sguardo sul mondo adolescenziale – molti coming out, molti confronti figlio-genitori, varie transizioni di sesso piuttosto precoci – e c’è persino spazio per l’animazione, col corto The Saint of Dry Creek (ma tra i corti queer ci sono pure Partners, Peace in the Valley e Peacock).
Sono però i documentari, genere sempre più interconnesso con la cine-fiction tradizionale, a rappresentare il meglio della selezione queer del Sundance: ecco l’atteso Uncle Howard di Aaron Bruckner sul dimenticato e bravissimo regista Howard Brookner (1954-1989), amico e studioso di William Burroughs, autore di uno dei più stimati ritratti sul profeta della Beat Generation, Burroughs: The Movie, deceduto per Aids a soli 35 anni, compagno di classe di Jim Jarmusch e Tom Di Cillo che appaiono nel film diretto dal nipote di Howard, il cineasta Aaron. Nel suo doc “scritto col cuore”, come lo definisce il Salt Lake Tribune, compaiono anche star del calibro di Andy Warhol, Madonna, Allen Ginsberg in preziosi documenti recuperati da archivi mai spolverati prima.
Uno dei massimi fotografi gay mai esistiti è immortalato in Mapplethorpe: look at the pictures di Fenton Bailey e Randy Barbato mentre uno dei massimi inganni della letteratura contemporanea, l’inesistente JT Leroy inventato dalla scrittrice Laura Albert, spacciato per adolescente transgender sieropositivo, in realtà frutto della sua immaginazione, è scandagliato da Jeff Feuerzeig in Author: the JT Leroy Story. Il cinema narrativo queer presentato al Sundance passa dalla love story adolescenziale lesbica First Girl I Loved scritto e diretto da Kerem Sanga alla sauna di SPA Night, debutto al vapore di Andrew Ahn ambientato in una club privato dove un ragazzo americano di origine coreana (il regista stesso?) insegue i propri desideri fra bagni turchi e saune finlandesi.
Ma c’è anche il trans Kiki di Sara Jordenho su creature gender afroamericane fra passerelle e omofobia sotto il catwalk; il dilemma di un giovane gay, in Other People di Chris Kelly che torna in famiglia dopo averla abbandonata tempo prima e ritrova gli stessi problemi di allora; un’amicizia femminile che evolve in maniera inattesa in Lovesong di So Yong Kim con Riley Keough e Jena Malone. L’elenco è talmente lungo che c’è da perdersi: ecco Intervention, Suited, Plaza de la Soledad, Tickled, Viva, Film Hawk e We Are X, tutti più o meno a tematica queer.
Tutti parlano, però,della cinescheggia impazzita Swiss Army Man di Dan Kwan e Daniel Scheinert, film surreale che ha fatto ridere e scandalizzato, con Daniel Redcliffe. Redcliffe, che non sa più come sbarazzarsi dell’etichetta sempiterna di maghetto Harry Potter, dopo il nudo integrale del teatrale Equus ora è nientemeno che un cadavere puzzone parlante, che usa il proprio deretano come propulsore per solcare le onde, il pene eretto come bussola ed è cavalcato come una zattera, al fine di attraversare il mare, dall’amichetto Paul Dano (il sottotesto queer lo lasciamo forse ai maliziosi?).
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