Olga Hepnarová è l’ultima persona a essere stata condannata alla pena di morte nella Repubblica Ceca, nel 1973, a soli 22 anni. Ne ricostruisce la vicenda un film rigoroso e inquietante, Moi, Olga di Tomas Weinreb e Petr Kazda che era uscito in Francia una settimana prima della strage di Nizza del 14 luglio scorso ed è stato ripresentato alla rassegna LGBT autunnale Ze Festival, organizzata dall’associazione Polychromes. Il giorno dopo la strage, la casa di distribuzione Arizona Films diramò il seguente comunicato annunciando che comunque il film non sarebbe stato ritirato dopo il sanguinoso attentato sulla Promenade des Anglais, che costò la vita a 86 persone investite dal camion guidato dal terrorista Mohamed Bouhlel: «Olga Hepnarová è tristemente celebre nella Repubblica Ceca. I registi Tomás Weinrem e Petr Kazda sono rimasti turbati davanti alle similitudini dell’attentato commesso da Olga Hepnarová e il dramma avvenuto a Nizza. Ci associamo al dolore delle vittime e dei loro famigliari ».
A riprova che il lutto è ancora troppo recente nella memoria dei nizzardi e che non intendono vedere film che lo possano evocare anche solo vagamente, in sala eravamo solo una decina.
In effetti le modalità della strage sono simili, anche se avvenute a 46 anni di distanza : il 10 luglio del 1973, alla guida di un camion, una ragazza psicotica, appunto Olga Hepnarová, devia dalla strada trafficata del centro di Praga gettandosi sul marciapiede, uccidendo otto persone e ferendone dodici.
I registi sono abili nel creare un’atmosfera di pneumatica angoscia intorno a un caso clinico che non intendono giudicare, né danno risposte sul perché Olga decise di mettere una pratica una strage così assurda. « Sono folle ma la mia follia è chiaroveggente», dichiara la protagonista, incarnata benissimo dall’attrice Michalina Olszanska, capo chino e rabbia trattenuta, fisicamente somigliante in maniera curiosa a Natalie Portman.
Con uno stile radicale di rara asciuttezza, fra Antonioni e Bresson, i registi ci fanno immergere nella Cecoslovacchia comunista degli anni ’70, dove Olga cerca di vivere apertamente la propria omosessualità, condannata in maniera più o meno silenziosa dalla famiglia – la madre sembra ignorarla, gli altri la detestano – e dalla società. Olga precipita lentamente in una depressione maggiore, isolata progressivamente da tutti. Non sappiamo in realtà molto di più, poiché lo scene sono spesso scollegate tra loro e la protagonista giace a lungo in piedi o sdraiata a osservare il vuoto. Giusto per rincuorarla, la madre arriva a dirle, dopo un tentativo di farla finita all’età di 13 anni per ingestione di dosi massive di meprobamato: «Per commettere suicidio ci vuole una volontà forte, che tu non hai. Bisogna accettarlo».
Gli unici momenti di sollievo riguardano il rapporto amichevole con un signore anziano interpretato da Martin Pechlat e l’impiego saltuario come autista di camion che però la porteranno, al culmine di un’alienazione assoluta, a compiere la strage (la scena più forte è proprio l’investimento dei pedoni ripresi da sopra la cabina di guida). Nel momento di massima dissociazione, dilaniata da un odio per se stessa senza più filtri, affermerà: «Io, Olga Hepnarová, vittima della tua bestialità, ti condanno alla pena di morte». L’omosessualità pare una componente accidentale della personalità di Olga, e i registi sono molto accorti nel non caricare di valenze ‘politiche’ le sue tendenze saffiche, visto il tema delicatissimo. Ma alla fin fine il personaggio di Olga resta troppo opaco per capirne a fondo le dinamiche interne.
Dramma gelido, gelidissimo, potrebbe avere una buona circuitazione nei festival LGBT, anche se temiamo che i distributori italiani difficilmente si avventureranno nell’acquistarlo.
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