Essere gay è non solo naturale, è una virtù: il pensiero di André Gide

La rigida educazione religiosa, gli incontri fatali con Oscar Wilde e un trattatello sull'omosessualità passato quasi inosservato.

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Figlio di una madre severa e di religione protestante, da giovane André Gide è dominato da una fede inquieta e ardente, oscillante tra il puritanesimo e l’anticonformismo tipico di quella professione religiosa. Morale e disobbedienza civile sono a tal punto radicate in lui da immergerlo in cicliche crisi interiori, tappe inevitabili del lungo percorso che lo porterà alla serena accettazione del proprio orientamento sessuale.

Gide riceve il Nobel per la Letteratura nel 1947 con il merito di aver “presentato i problemi e le condizioni umane con uno sconfinato amore per la verità“.

Una verità a cui contribuisce anche Oscar Wilde, conosciuto da Gide quando quest’ultimo era giovanissimo. Allo scrittore irlandese Gide ha dedicato splendide pagine nei suoi Mémoires e in un omaggio intitolato In memoriam. È grazie a Wilde che Gide impara ad accettare la legittimità del piacere, conoscendo nel 1895 la sua esperienza omosessuale decisiva con un prostituto africano.

Oscar Wilde viene anche colto da Gide in un seguito di istantanee separate da intervalli più o meno lunghi d’assenza che accentuano un processo di degradazione visibile a colpo d’occhio. Wilde è dapprima il dandy che regna sull’alta società di Londra e di Parigi, il romanziere infallibile e l’autore di teatro adulato da Europa e America, è un Cristo pagano magnifico e inquietante dalla seduzione velenosa e vagamente satanica. A Firenze, nel 1894, è ancora il brillante conversatore di tre anni prima, ma appesantito e alcolizzato. Ad Algeri l’anno successivo è il signore dei bassifondi e poi l’uomo straziato dai lavori forzati nel giugno ’97 e ancora lo straccio ubriaco rigettato da tutti nella Parigi del 1898. Sono in totale cinque incontri, dall’apoteosi alla decadenza, come i cinque atti di una tragedia: la tragedia del re Oscar Wilde. Wilde a quei tempi allontanava gli amici che gli suggerivano discrezione, Gide farà lo stesso anni dopo in procinto di pubblicare Corydon, l’opera di cui andremo a parlare. Gide farà leva sull’esperienza di Wilde per diventarne il contrappunto lucido e consapevole: Corydon sarà questo.

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Che portata ha un coming out “letterario” a quei tempi? Gide è stato il primo autore della letteratura moderna – anni ’20 – a vivere da omosessuale dichiarato: non avevano fatto altrettanto Proust o Cocteau né Wilde aveva ammesso le sue responsabilità ai processi in cui fu coinvolto. Il tema dell’omosessualità è molto dibattuto a livello all’epoca: abbondano le storie e i trattati che dipingono l’omosessualità come una malattia della personalità o un’anomalia dell’istinto sessuale. È un mercato florido: autori e sedicenti tali vi si gettano con ferocia.

E al di fuori del mondo letterario? Il primo ‘900 pullula di processi ai danni di omosessuali, su tutti il cosiddetto affaire Eulenburg, il più grande scandalo politico del Secondo Reich (1871-1914), quello scandalo che ha introdotto il neologismo “omosessuale”, prima circoscritto al mondo degli specialisti, nell’opinione pubblica. Ma sono anche gli anni di interessanti apporti medici al tema, come quello di Freud, e dei primi movimenti di liberazione omosessuale, ben rappresentati dalla figura di Hirschfeld, medico tedesco di origine ebraica e pioniere della sessuologia: nel 1897 fonda la prima associazione omosessuale militante al mondo e nel 1919, a Berlino, l’Istituto di Scienze Sessuali visitato dallo stesso Gide.

Corydon è un breve trattato apologetico sull’omosessualità, interessante per il contributo fornito ad un dibattito che ancora oggi si snoda attorno ai poli della natura e della cultura, della storia e del contesto sociale. A dispetto della sua brevità, questo testo ha affrontato ogni genere di traversia: ripensamenti, attacchi da parte del concorrente mondo letterario, difficoltà editoriali e scetticismo di amici e parenti: tutto questo dal 1909 al 1924.

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Il narratore – un eterosessuale conservatore – è rimasto impressionato da un caso moderno (il processo Renard del 1909) e si reca da Corydon, medico omosessuale, per sentire la controparte. L’obiettivo del medico è dimostrare che quanto secondo la convenzione è un vizio contro natura è non solo naturale ma addirittura una virtù. Servendosi della biologia e della zoologia elabora una teoria darwiniana sulla necessità evolutiva dell’eros omosessuale, grazie alla sociologia rileva che la prevalenza dell’eterosessualità è da attribuire alla forza deformante del conformismo, infine guarda alla storia provando che le epoche in cui la pederastia ha conosciuto il suo trionfo – Grecia classica, Rinascimento – sono state quelle più ricche di arte e moralità.

Corydon è un testo ambiguo, che declassa gli effeminati a pervertiti dell’omosessualità. Gide si definiva un pederasta (Corydon era il pastore delle Bucoliche virgiliane: guarda quindi all’antichità per la sua difesa della pederastia, che nell’accezione tradizionale indica l’amore di un uomo per un giovane ragazzo che mantiene ed educa), rispettava i sodomiti (coloro che si innamorano di uomini già adulti) e disprezzava gli invertiti (coloro che amano essere posseduti): Corydon parla insomma di una minoranza della minoranza.

Sarà lui stesso a pentirsene, come si legge nella prefazione dell’opera del 1922, ma gli va dato atto di aver parlato del desiderio in un modo mai toccato prima. In un’altra sua opera, Le Traité du Narcisse, scrive: “Può smarrirsi, perdersi o corrompersi ma il desiderio è l’essenza dell’uomo, è la materia di cui è fatta la sua eternità e l’uomo deve viverla e manifestarla.

Gide si aspettava un’eco mediatica notevole da quest’opera: non c’è stata. Ignorata dal grande pubblico e dalla censura, non divenne mai materia di scandalo. Perché? A livello stilistico l’opera si configura come un tipico dialogo socratico: l’argomentazione è snella e raramente sfocia nella perorazione complessa, in scena solo due interlocutori interessati a sviscerare il tema preso in esame. L’ironia è bipartisan, perché lo stesso Corydon risulta al lettore buffo, impertinente, quasi paradossale. Il sarcasmo e l’apertura al confronto implicano un’adesione cieca al relativismo e lo stato di dialogo allontana il testo dalle viscere del dogmatismo. L’adozione stessa del genere, il trattato, applica minor forza persuasiva rispetto ad un romanzo. Nella prefazione fatta alla traduzione inglese e pubblicata nel 1950 Gide scrive: “Che Corydon sia il più importante dei miei libri ne sono convinto, come sono convinto che verrà un giorno in cui ci si accorgerà della sua importanza“.

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