Constantinos Kavafis nasce nel 1863 ad Alessandria d’Egitto: della città in cui ha trascorso più o meno tutta la vita amava le viuzze, le equivoche taverne del porto e il mercato orientale dei profumi. Sentori di piaceri.
Il volume di Adelphi Un’ombra fuggitiva di piacere, curato da Guido Ceronetti, regala un’interpretazione sussurrata di 44 poesie (su 154 totali) dell’autore greco. Kavafis, nelle pagine, si fa guida d’amore con la musicalità colloquiale della sua poesia, le rievocazioni di scorci abbaglianti della sua città natale e quei corpi di splendidi giovinetti “marinai, facchini, prostituti da pochi talleri, tutti rimasti nella sua memoria come monarchi e regine orientali, come Dei della Grecia morta” da lui tanto amati.
Kavafis si sentiva oppresso: mura ovunque, finestre introvabili (“Cercando le Finestre. Oh conforto, se mai una si aprisse! Ma qui non ci sono finestre. O mi è impedito trovarle” – Le Finestre – 1903), divinità ingrate, città aguzzina (“Trovare una Città, un supremo approdo, da contrapporre a questa, dove incombe su ogni mia passione una condanna già prima emessa, e sul mio cuore pesa come una tomba… Mi pare essere un morto! Anima mia, tanto disfacimento come puoi contenere?” – La Città – 1910).
Solo la passione per i giovani ragazzi (“Quanti gli adolescenti ridicenti i versi suoi! Infuocati sguardi dove palpitano i suoi miraggi. La loro mente nitida, dai sensi accesa, i loro solidi corpi benfatti quanto di bello fu da lui espresso fa trasalire” – Avviene Raramente – 1913), per un erotismo che non conosce età (“Non è da corpi pavidi godere splendidamente nel bruciarsi” – Lampadario, 1914), poteva appagarlo: è l’incertezza e difettosità del piacere (nonché l’invecchiamento conscio dei desideri non sopiti) ad appagarlo, anche se la mente, abile a inventarsi realtà di immateriali soddisfazioni erotiche, a catalogare con deliri di onnipotenza la penuria di risultati concreti, lo stillicidio di assenza, le frustrazioni tutte, per una penombra (reale, a Kavafis piaceva pensare a lume di candela) condivisa dove tutto ha tempo e modo di manifestarsi, gli è stata di grande aiuto.
Mezz’ora – 1917
Mio non sei stato né mai sarai,
Credo. Fu l’altro ieri:
Uno sfiorarsi al bar, dirsi qualcosa,
Niente di più; e già la pena provo
Del rimpianto, confesso. Ma c’è talvolta
In noi dell’Arte, di mente tale eccesso
Che un’ombra fuggitiva di piacere
Trasformiamo in sostanza, ne facciamo
Realtà palpabile. Così fu al bar,
L’altro ieri: complice in me una
Ubriacatura misericordiosa,
In rapimento erotico ho vissuto
Per mezz’ora, assoluto…
(Devi averlo capito: sei rimasto
Apposta un po’ di più). Ma quanto,
Oh quanto necessario fu il guardarti
Nelle labbra, e il corpo tuo accanto
Avere al mio… Concesso
Non m’avrebbero un tale incanto
Vertigine d’alcool, sogno,
Pur tanto forti, mai…
Per un attimo ha creduto che la saggezza si prendesse gioco di lui (“Sente che la saggezza lo derise. Hai molto tempo, rimanda, gli diceva quell’impostora. Effusioni stroncate, gioie sacrificate. Al suo delirio di saggio le occasioni svaporate fanno le fiche” – Un Vecchio – datazione incerta, ma anteriore al 1911), per poi auto-convincersi della bontà delle sue azioni, dei suoi incessanti vagabondaggi tra birrerie e bazar dell’amore dove trovava e non trovava. Rievocava poi quel che aveva trovato o non trovato nella sua casa, al lume acceso di una candela, nutrendosi di chissà quali divinità e di quali storie (le antiche civiltà ellenistiche e bizantine sono centrali nel suo corpus).
A Mente Chiara – 1918
Gli anni di gioventù, la vita erotica mia
Ebbero un senso: mi è chiaro tutto
Adesso.
Tanto pentirmene come fu inutile,
Privo di senso…
Nascondevano un fine: io non capivo.
Giovinezza corrotta fu matrice
Per me delle poetiche mie vie
E alla mia Téchne un tratto
Inestinguibile impresse.
Perciò nel ravvedermi
Non fui costante, mai.
Nel trattenermi, nell’emendarmi,
Mai superai due settimane.
In una poesia del 1928 (pochi anni prima della morte, risalente al ’33), Un giovane dell’arte della parola nel suo ventiquattresimo anno, Kavafis attribuisce alla sopracitata mente il merito di rendere infinito il finito. La testa, sempre che uno ce l’abbia, ricompone faticosamente i pezzi sparsi dell’essere, restituendo a poesia i suoni di una vita.
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