Baudelaire definiva flâneur quell’uomo che vagando per le vie della propria città, osservava il tessuto urbano e i suoi cambiamenti, lasciando che le emozioni provate strada facendo lo dirigessero nel suo percorso artistico e di flânerie. Non coinvolto, quindi, ma grande osservatore. E’ questa una definizione che calzerebbe a pennello l’artista cinese-americano Martin Wong, sebbene a più di un secolo di distanza. Trasferitosi a New York nel 1978, dopo aver creato costumi per una compagnia teatrale di drag queen a San Francisco, si stabilì nel Lower East Side di Manhattan, ottenendo una camera nel malandato Meyer Hotel in cambio di un lavoro come portiere di notte.
La situazione urbana e sociale che gli si presentò davanti agli occhi era ben lontana da quella attuale: quest’area della Grande Mela era una vera e propria no man’s land dove il degrado, il crimine e l’abuso di droghe pullulavano senza restrizioni. Tuttavia, fu proprio qui che la maggior parte dei suoi più celebri lavori vennero dipinti. Rivestendoli di un grande romanticismo poetico e decadente, prese come soggetto principale gli stessi edifici fatiscenti, le comunità di Afro-Americani e Latini che vi abitavano e quelle fantasie omoerotiche che spesso riservava loro, con una particolare predilezione per pompieri e carcerati.
In My Secret World e in Voices, invece, è la propria camera da letto vista da due punti di vista differenti a costituire il soggetto dell’opera.
Nel primo caso la visuale è data dall’esterno verso l’interno, lasciandoci intravedere quelli che da un lato possiamo considerare “autoritratti d’artista”, come Psychiatrists Testify: Demon Dogs Drive Man to Murder (finestra sinistra, parete frontale) – uno dei suoi primi “dipinti per sordi” (che in seguito vedremo), e dall’altro i libri simbolo dei suoi molti interessi, i cui argomenti spaziano dallo studio delle costellazioni all’hockey.
Nel secondo caso, il punto di vista è interno: ciò che intravediamo è la visuale che Wong stesso vedeva fuori dalla propria finestra: un muro di mattoni. Il titolo Voices è indicativo dell’alienazione e della solitudine di cui soffriva appena trasferito, tanto forte da dedicare un quadro a quelle voci che dalla sua finestra sentiva e con cui non poteva entrare in contatto.
Un elemento che appare in entrambi i quadri è il muro di mattoni – uno dei motivi più esplorati e intrisi di significato per l’artista. Se da un lato una delle più ovvie interpretazioni ci porta a considerarli come barriere urbane, la loro rappresentazione tanto meticolosa da diventare poeticizzata lascia trapelare qualcosa in più, forse una riflessione sulla vita terrestre dell’uomo, sulle sue interazioni e i suoi sviluppi; uno strumento – il mattone – che adempie alla sua funzione solo se impiegato assieme ad altri, come in una comunità o in un linguaggio.
Il potenziale creativo del mattone viene così esplorato per dipingere fedelmente i muri insudiciati del suo circondario, ma utilizzato al contempo come sfondo per scene di gioia e unità, come in La Vida, fino a costituire la materia stessa delle sue fantasie, come in Mi Vida Loca.
Negli anni successivi al suo trasferimento, il Lower East Side fu sottoposto a un progressivo processo di gentrification – un rinnovamento urbanistico e socio-culturale che comportò l’abbattimento di edifici e la cessazione di svariate attività di coloro che furono costretti ad abbandonare la zona – un aspetto che Martin Wong non mancò di registrare. Nella serie di quadri Storefronts (traducibile con “Esterni di Negozio”), l’artista produsse dipinti dalle grandi dimensioni in cui si ergono crude facciate di chiese o garage chiusi, incatenati e dimenticati.
Se da un lato l’interesse è rivolto quindi alle sembianze degradate del Lower East Side, dall’altro questa zona funge da palcoscenico su cui proiettare i propri desideri e le proprie fantasie omoerotiche, come abbiamo visto in Mi Vida Loca, dove ha eretto un pene a monumento. In altri casi, invece, queste pulsioni sessuali prendono le forme di scene in cui sono i pompieri a fare da protagonisti – figure verso cui l’artista ebbe sempre un’attrazione particolare.
In Big Heat del 1988, ad esempio, due pompieri sono ritratti in un bacio di fronte ad edifici imponenti e ricoperti di graffiti in cui hanno spento un incendio insieme. In I Really Like The Way Firemen Smell, invece, l’artista ci racconta la sua passione per l’odore caratteristico del pompiere, la cui silhouette si staglia alla base del dipinto.
Fu soprattutto dopo la conoscenza del poeta e drammaturgo Miguel Piñero (presto suo amante) che iniziò a proiettare sempre di più la propria sessualità sulle tele. Lo scrittore portoricano lo introdusse al mondo della malavita di cui fino ad allora poteva solo osservarne i movimenti. Inoltre, era stato in carcere, dove scrisse l’opera teatrale Short Eyes per cui vinse un premio Pulitzer. L’ambito della prigione risultò essere particolarmente fertile per Martin Wong, che lo trasformò da luogo di reclusione a fonte di fantasia erotica: i detenuti dei suoi dipinti sono ammalianti, spesso ritratti in pose invitanti come odalische in un harem.
In The Annunciation According to Mikey Piñero (Cupcake and Paco), Wong ritrae soggetti prelevati dall’opera teatrale dello stesso Piñero – Short Eyes – in una scena in cui un detenuto cerca di sedurre l’altro nelle docce. Nella versione di Wong, tuttavia, l’irruenza dell’accaduto viene mitigata e tradotta in un momento romantico e addirittura religioso. Rivisitando il gusto rinascimentale di dipingere il momento dell’Annunciazione di Maria, Martin Wong riconfigura l’evento trasformandolo in una scena di intimità e seduzione omosessuale.
In Reckless, il giovane detenuto giace a letto col corpo nudo, coprendosi solo sotto la vita. Lo sguardo è rivolto verso di noi, quindi a chiunque in quel momento lo stesse osservando dall’esterno della cella. Considerando anche il titolo dell’opera – Reckless – quindi incauto, imprudente… si potrebbe pensare ad un suo atteggiamento compiaciuto e condiscendente nei confronti di un detenuto e delle sue avance sessuali.
In Come Over Here Rockface, è la guardia ad intimare al recluso di succhiarglielo, mentre in Soap emerge l’oggetto più emblematico nei racconti che circondano le docce delle prigioni: la saponetta caduta al suolo.
Di carattere più carnale è invece Mintaka – un dipinto bipartito dove il sesso tra detenuti viene reso ben più evidente, soprattutto alla sinistra della composizione. Più allusivo, sebbene altrettanto diretto, è invece la scena che si svolge sulla destra, dove salta agli occhi la nuda schiena dell’uomo di colore. Solo dopo attenta osservazione è possibile intravedere un piede, una gamba e parte della testa dell’uomo bianco disteso a letto sotto di lui.
La serie di dipinti più distintiva di Martin Wong rimane comunque quella dei “Paintings for the Hearing Impaired” – letteralmente “Quadri per Non-Udenti” – dove impiegò l’alfabeto dei segni americano per comporre le proprie opere. L’idea per la loro produzione gli venne durante una viaggio nella metropolitana newyorchese, dopo che un sordo-muto gli consegnò un biglietto in cui raccontava la propria storia. Il testo era bifronte: da un lato in americano scritto, dall’altro nell’alfabeto dei gesti.
Il desiderio di sensibilizzare la società nei confronti della comunità dei non-udenti lo spinse a continuare su questa strada, ma anche il desiderio di impiegare un linguaggio sconosciuto alla maggioranza della popolazione: una sorta di codice segreto. Il suo interesse per il linguaggio e la comunicazione in generale era molto grande e spaziava dalla poesia ai testi antichi, dai graffiti allo studio degli astri.
L’utilizzo delle costellazioni, infatti – ricorrente sullo sfondo di molte sue opere – può essere visto, a sua volta, come un ennesimo linguaggio. Dopotutto, il cielo era concepito nell’antichità come un firmamento da osservare e cercare di leggere – una cupola solida in cui erano incise le stelle.
Attraverso una grande ricerca stilistica guidata da un altrettanto grande talento, Martin Wong ha dipinto la realtà e la verità del degrado che lo circondava, aprendo – attraverso di esso – ad una ricerca fatta degli stessi slanci poetici e artistici di scrittori come Baudelaire e l’Idéal, Mallarmé e l’Azur o D.H. Lawrence e il Rainbow. Una ricerca nella carne che mira a raggiungere gli astri e di cui catalizza la bellezza creandone un fermo immagine sublime.
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