“Che cosa immensa e curiosa il mio amore.
Non posso dirti chi amo;
ma non è questo che interessa.
Mai oggetto di passione amorosa è stato così infimo.
Ciò che conta sono i suoi fenomeni…
Ora, questi fenomeni sono così belli, così esaltanti…
Una cosa veramente unica.
Da non potermene mai un istante liberare,
neanche dal pensiero”.
Nell’epoca delle Isole fa piacere ritrovare, in cartellone nel più importante teatro della Capitale, uno spettacolo come ‘Porcile’. L’accostamento potrà sembrare fuori luogo, ma all’importanza della vittoria di Luxuria in chiave GLBT, ampiamente e giustamente celebrata dal nostro portale e da tutti i mezzi di comunicazione, andrebbero affiancati d’obbligo un pensiero e una spaventosa lucidità che sarebbe suicida dimenticare e che, come il trionfo stesso di Luxuria, non sono rivolti ai soli omosessuali.
Pasolini è infatti autore tra i più complessi e multiformi, che in morte riesce a parlare a noi e al nostro tempo non meno che in vita. Sgombrato il campo dalle foglie secche, dalla barbarie con cui venne massacrato, dalle commemorazioni di maniera e dai suoi stessi limiti di uomo, riemerge una luce accecante, quella di un intellettuale nel senso più profondo del termine, completamente calato nella società in cui vive, che analizza, ammonisce e prefigura.
Il ragazzo che ama i maiali fino a farsene consumare, che preferisce una regressione, disdicevole per i suoi simili e sempre più tragica, alla quale gli altri non riescono che ad alludere, è la nostra vera coscienza, proprio nell’ammissione della sua impotenza. La sua spaventosa modernità rifiuta di aderire alle mode, di divenire abitudine o maschera, si tratti di sostenerle o di rassegnarvisi, a costo di risultare sgradevole e catastrofico, specialmente in anni in cui vige l’imperativo di rimanere ottimisti, di ballare sul ponte della nave che affonda.
"Porcile è una favola nera”, spiega il regista dello spettacolo Massimo Castri. “Racconta una storia terribile ma in maniera leggera, beffarda, spoglia di ideologismi e letteratura”. In una visione infantile (un prato verde in pendenza, due fiori giganti, una panchina e nulla più), “traduzione simbolica dello spirito interno del testo", aleggia silenziosa la presenza di Julian, il ragazzo che decide di non esserci. "Una figura molto attuale”, continua Castri, “perché ricorda le dinamiche ed i fatti che inquietano gli umori odierni".
Proprio nella sua presenza assente, Julian finisce per illuminarsi di riflesso, lontano com’è dallo scellerato patto di potere tra ricchi industriali: suo padre, che tacerà il genocidio di ebrei da parte di un nazista, e quest’ultimo, che non dirà dell’amore per i maiali di Julian”. Maiali veri, ben diversi da quelli metaforici dei genitori del ragazzo, che attendono invano che il figlio li contesti (temporaneamente, come molti figli di ricchi), dando loro dei maiali, oppure divenga maiale egli stesso.
Tra umanisti e scienziati corrotti, falsi conservatori e falsi ribelli, in uno scacchiere di convenzioni e falsità, dove perfino la cultura e la filosofia più alta finiscono sconfitte (è Spinoza in persona ad ammetterlo al ragazzo) e la dignità scompare con il mondo contadino, Julian non prende parte al gioco sociale, non vive e non muore e, alla ragazza che ancora spera e gli chiede chi ami, lui risponde: “Non c’è un ‘chi’, c’è soltanto il mio amore. Cara cavia, sei libera. L’ultimo, infame esperimento è finito”.
Porcile di PierPaolo Pasolini
con Antonio Giuseppe Peligra, Corinne Castelli, Paolo Calabresi
regia di Massimo Castri
Roma, Teatro Argentina
fino al 21 dicembre
di Flavio Mazzini
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