Erano tante, strafatte e felici. Nude o vestite di stoffe trasparenti, i capelli lunghi da madonne liberate dai padri, i corpi secchi da mistiche indù stordite da un sacco di roba. I tre giorni del memorabile festival musicale del 1969 furono anche la celebrazione di questa femminilità nuova e sfacciata.
Addobbate da cinturini e nastri, collanine, frange e perline, gli occhi appena socchiusi o proiettati verso il cielo, il sorriso perenne degli angeli appena caduti. Le femmine di Woodstock erano vive e bellissime. Guardate le loro mani piene di anelli e bracciali e voglia di tutto, di toccare, ballare, di fare insieme l’amore. Di farlo coi ragazzi, con le ragazze, da sole. Di farlo a modo loro, al di là del bene e del male. Mani che reggevano sigarette, canne e bottiglie, che per tre giorni non ebbero nessuna paura, non si fecero domande. E poi i piedi, scalzi, luridi, impastati di birra e di fango. Tra di loro alcune hanno fatto la storia della musica, tipo Janis Joplin, la blues girl dalla voce sacra, sorridente dietro gli enormi occhiali tondi, pochi mesi prima di tornarsene nell’eterno da cui era venuta.
Questi scatti le hanno fermate in attimi che non ci dicono niente di ciò che ne è stato dopo di loro. Di quelle che hanno continuato a vivere un po’ di quella felicità quasi ultraterrena, di chi è tornata nei ranghi di una vita borghese, di chi ha pagato un prezzo altissimo per questa libertà infinita e imperdonabile.
Di loro sappiamo solo che per quei giorni brillarono di una luce che ha fatto la storia.
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