“Drag Off the Stigma”, Paula Lovely tra ricerca artistica e attivismo: «Noi siamo favolosə» – Intervista video

Trascinare via lo stigma attorno all’Hiv: Paula Lovely racconta a Gay.it la sua storia.

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Sono passati più di trent’anni dall’inizio dell’epidemia di Hiv e, nonostante gli enormi passi avanti fatti in campo medico e in termini di sensibilizzazione, lo stigma attorno a questa malattia che ha causato la morte di migliaia di persone e decimato la comunità LGBTQ+ negli anni Novanta esiste ancora. Forse non viene più chiamata “la malattia dei gay”, ma un po’ di discriminazione, di pregiudizio e di giudizi vengono ancora fuori quando una persona dice di essere sieropositiva.

Drag Off the Stigma” perché lo stigma va trascinato via una volta per tutte e per farlo è necessario continuare a parlarne apertamente, continuare a spiegare che con questa malattia oggi si può convivere, continuare a ripetere che solo aiutandosi e sostenendosi a vicenda è possibile andare oltre i pregiudizi. E abbiamo tentato di farlo parlando con alcunə artistə e performer che hanno usato le loro piattaforme per parlare anche di sieropositività attraverso la loro esperienza.

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Paula Lovely, artista e attivista creazione di Paolo Gorgoni

La seconda performer che ci ha raccontato della sua esperienza come persona Hiv+ è Paula Lovely (@paula_lovely_gorgeous), creazione di Paolo Gorgoni che si descrive come artista e attivista. Attivista ancora prima che Paula Lovely nascesse, come ci racconta, un po’ per caso in un bar di Lisbona. Artista perché la sua ricerca utilizza gli strumenti e i linguaggi dell’arte drag per parlare di genere e di Hiv in modo diverso.

In collegamento dal Portogallo, dove tuttora vive, Paula ci racconta non solo la sua esperienza, ma anche i tanti livelli di stigma e discriminazione che dal secolo scorso si sono protratti fino ad oggi e ci ha aiutati a fare chiarezza su alcuni aspetti dell’Hiv e dell’Aids che non sempre sono chiari a tuttə. E l’obiettivo è sempre e solo uno, come ci dice in chiusura: «Speriamo che un giorno essere visibili con l’Hiv smetta di essere un’impresa eroica che ci possiamo permettere solo se siamo maschi bianchi in Europa».

 

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Come ti sei avvicinata all’arte drag?

Questa è una storia particolarmente interessante. Io ho iniziato a fare drag più o meno per sbaglio, sono comparso nello show che un mio amico preparava ogni 15 giorni, dove lui fondamentalmente faceva il suo numero in drag all’inizio e alla fine e poi nel centro c’era sempre un’artista diverso invitato, uno spazio molto libero. Si trattava di cabaret, questo era il formato che si era inventato all’epoca e che adesso sta rifacendo a Venezia, fra l’altro. Noi eravamo coinquilini e mi dice: «Mi fai la parte e mi vieni a cantare? So che sei cantante, vieni, fai qualcosa, perché non sappiamo chi invitare», quindi dico va bene, però ovviamente se vengo lo devo fare anch’io insomma, altrimenti non ha senso, non è divertente. Per cui vado a cantare a questa serata, faccio qualche canzone con le basi in questo localino minuscolo, grande quanto una cucina di casa, con le casse del computer, senza amplificazione. Quindi nasce così Paula Lovely, un po’ per scherzo, un po’ per gioco. Oggi quasi non mi definisco più una drag queen, non perché io non usi questa estetica o non usi questi strumenti e questi linguaggi, ma perché io dicendo drag queen alimento un’aspettativa di show che è completamente diverso dal lavoro che faccio io. Vado agli show di quelle vere, cioè che sanno fare lipsync, che sanno ballare, che fanno le spaccate, il cui trucco è spettacolare, che si cuciono i vestiti e tutte queste cose qui. Io non le so fare. Adesso quindi mi piace dire che io utilizzo il linguaggio drag per prendere la messa in discussione del genere che porta con sé e poi però lo trasferisco agli ambiti della mia ricerca artistica che sono performance art, scrittura, musica e a volte anche pittura. E quindi ecco Paola Lovely. Nasce così in un bar a Lisbona per scherzo. E poi c’è rimasta

Hai notato delle differenze particolari su come è percepito il mondo drag in Portogallo e in Italia?

Io credo che questa differenza si notasse di più tanti anni fa. Poi c’è stato il fenomeno Drag Race che è stato mondiale e che ha un po’ uniformato le aspettative, le estetiche e le pratiche del drag a livello internazionale, facendolo conoscere prima di tutto fuori dalla comunità in cui nasce. Il drag nasce da una comunità oppressa, quella LGBT. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone LGBT che nel vestirsi da donna in realtà irridono la mascolinità, che è il problema che sta dietro anche al patriarcato e un sacco di altre questioni che ci riguardano. Insomma, il drag in Portogallo prima era una roba un po’… mentre in Italia vedevo molto drag comicità, drag imitazione che fa ridere ma anche drag perfetto, bellissimo, contemporaneo, vestiti pazzeschi etc., qui io vedevo un po’ quella riproduzione degli anni ’80, a volte anche un po’ al limite del discutibile. Tipo l’artista drag di 50 e passa anni che per fare la spagnola si mette il vestito a pois e apre il ventaglio. Diciamo che rispetto a come si fa oggi era un po’ riduttivo e anche un po’ feticizzazione di un’intera cultura. È diverso, molto diverso. Adesso invece chiaramente è cambiato, hanno tutti vent’anni, guardano tutti Drag Race, sono favolosi.

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Paula Lovely in una scena del docu-film “I’m Still Here”

Come inizia invece il tuo attivismo per quanto riguarda l’Hiv?

Per quanto mi riguarda l’attivismo nell’ambito dell’Hiv nasce molto prima di Paula Lovely, nel senso che io prima di cominciare ad avere un’attività artistica ero già attivista. Io, ragazzo di 23 anni, quando sono stato diagnosticato a Bologna, dove abitavo, decido quasi subito che per il tipo di personalità che ho io, con questo imprevisto e con il dolore che si porta dietro, non potevo non farci niente. È un tipo di approccio che io ho sempre un po’ con tutto quello che arriva e ci faccio il meglio che posso, un po’ forse me l’ha insegnato mia mamma, che quando si rompevano i vetri a casa e non potevamo sostituirli prendeva le crepe e ci disegnava i fiori sopra. Quindi io sono un po’ cresciuta così. A Bologna, proprio in quegli anni, nasceva l’Associazione Plus, il primo nucleo di aggregazione di lotta all’AIDS non generalista, come invece tante altre associazioni che hanno una storia più lunga. Plus ha una storia più corta, è un’associazione più giovane che però si occupa di andare all’intersezione tra essere un membro della comunità LGBT e avere l’Hiv, non una cosa o l’altra, perché c’era questo bisogno all’interno della comunità. Forse anche per non incappare in quell’errore di percezione che i fr**i hanno l’Hiv e gli altri no. Secondo me la comunità è un po’ sfuggita alla sua responsabilità di farsi carico del problema dell’Hiv. Insomma, l’associazione nasce e io, nel giro di poco tempo, oltre a farne parte, inizio a far parte della direzione e ci sono tuttora, per cui sono passati 11 anni e io sono ancora felicemente un membro di quel gruppo.

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Paula Lovely, artista e attivista che combatte contro lo stigma dell’Hiv

E poi in Portogallo?

Una volta arrivato in Portogallo, e nel momento in cui inizio a fare drag, mi sono reso conto che l’arte era potente ed era un modo utilissimo e bellissimo – molto più interessante forse di quelli precedenti, molto più interessante che andare alle conferenze – per parlare anche di Hiv, dandogli però una prospettiva appunto non scientifica o medica, bensì sociale e politica. Per cui appena nata Paula Lovely le viene offerto il palco del Pride per cantare una canzone. Qualche giorno prima però mi dico “Io non posso avere il palco di un Pride e non utilizzarlo un po’ meglio che cantando una canzone e andandomene. Anche perché il look è brutto, la canzone chissà come la canterò, speriamo almeno di lasciare un altro segno importante per la mia comunità”. Io mi ero messo un po’ in pausa dalla visibilità pubblica con l’Hiv che è un tema complesso richiedendo comunque molta scorza, però in quel momento decido che bisogna farlo. Anche perché mi rendo conto che in Portogallo la visibilità delle persone con Hiv, per quanto possa sembrare assurdo, è ancora meno che in Italia, e quindi che in realtà negli ultimi 25 anni di attivismo c’era un buco di rappresentazione. E c’ero io, che alla soglia dei 30 mi dico “Vabbè, forse non rappresenterò i giovanissimi. Rappresentiamo almeno questa insipienza di mezza età in cui mi trovo e comunque cerchiamo di creare un ponte fra una generazione che è lontanissima da quella dei giovanissimi e la mia”. Che, insomma, mi sono persino installato TikTok quindi forse ce la possiamo fare. Ho fatto un discorso in cui ho detto che l’elefante in mezzo alla stanza della nostra comunità era l’Hiv, che le persone con Hiv esistono, che la discriminazione nei loro confronti esiste, non solo da fuori, ma anche dentro di noi, dentro la comunità. Nel momento in cui l’ho detto, la Tv, la radio e i giornali mi volevano tutti all’improvviso. Però è stato difficile portare avanti questo discorso completamente attivista, non facendo dimenticare che in realtà io ero un’artista, che avevo intrapreso un discorso artistico di ricerca. Perché in fondo è quello che mi sento di essere ed è così che mi presento.

 

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Qual è stata la prima cosa che hai pensato al momento della diagnosi? Avevi paura del giudizio di chi ti stava intorno?

Non ho problemi a parlarne e penso anche che sia utile, però sarò il più veloce possibile perché mi piace di più parlare di tutto quello che di buono abbiamo fatto con l’Hiv piuttosto che del dolore iniziale di scoprire di averlo, quindi lo dirò veramente in mezzo minuto. Io ho 23 anni, vivo a Bologna, sono uno studente, ho una vita sessuale molto simpatica, molto frizzante e a un certo punto capitano degli episodi di sesso senza preservativo. Sono molto pochi, quindi è facile anche circoscriverli. Inizio ad avere la febbre, la febbre non passa, vado in ospedale e mi fanno un sacco di altri test senza farmi subito quello dell’HIV pur avendomi ricoverato perché io avevo un test molto recente negativo risalente a un mese prima. Quindi probabilmente io in quel momento mi trovavo in quel periodo finestra in cui il virus non si vede nel test, però magari c’è. Scopriamo che la mia infezione è molto recente, per me è facilissimo capire da dove è arrivata, perché appunto si contavano su una mano i rapporti senza preservativo all’epoca. E quindi niente, io assorbo il colpo quando me lo dicono. La prima cosa che ho pensato mi ha colpito perché non è stato “Oddio, perché proprio a me?”, ma quello che io ho proprio anche detto verbalmente al medico è stato “Cazzo, ho solo 23 anni”. Il che riflette un pensiero che secondo me è il risultato della cultura degli anni ’80 e ’90, che se sei fr***o prima o poi ti può capitare. Questo stigma, per quanto noi non lo vogliamo applicare agli altri, a volte ce l’abbiamo interiorizzato e io mi sono reso conto in quel momento che nella mia testa di persona gay consapevole, era ovvio che prima o poi mi sarei preso l’Hiv. Ma mi aspettavo, non so perché, che accadesse a 45 anni e non a 23.

Sappiamo che oggi con l’Hiv si può convivere ma spesso quando se ne parla si mettono insieme Hiv e Aids, quando invece sono due cose ben diverse. Ci spieghi bene questa differenza?

Intanto grazie per la domanda, perché finalmente facciamo luce su un aspetto fondamentale. Spesso, quando si scrive nella stampa, si parla di Hiv e Aids per coprire il bacino di persone che non solo hanno l’Hiv e ci vivono bene, ma anche che invece magari non l’hanno trattata e sono arrivati allo stadio terminale dell’Aids, perché l’Aids è una sindrome che deriva dalla convivenza con Hiv in assenza di trattamento. Cosa vuol dire? Se si ha l’Hiv nell’organismo, visto che non viene controllato da un trattamento, si replica fino ad avere il sopravvento sul sistema immunitario e dunque espone la persona a dei tipi di cancro molto specifici, a delle infezioni cosiddette opportuniste, che sono infezioni che una persona senza il virus non prenderebbe. Giunti allo stadio dell’Aids per cui si muore, ma non di Hiv direttamente. All’interno del quadro Aids’, che è una sindrome, quindi con tutto quello che porta, si può morire di polmonite, cancro, sarcoma di Kaposi eccetera. In realtà, invece, quando parliamo di Hiv, stiamo parlando di una persona che ha un virus e che, come con altri tantissimi virus, incluso l’herpes, ci può vivere tutta la vita esattamente come tutti gli altri. Solo che sull’herpes, che si prende molto più facilmente, si fa meno scandalo, perché insomma, non c’è tutta questa narrativa drammatica. Nessuno ci è mai morto di herpes, è anche vero, diciamolo. E soprattutto perché l’herpes non è così connotato da un punto di vista della sessualità o delle pratiche in modo non sicuro. Insomma, tutto ciò che è invece l’immaginario che abbiamo attorno ad Hiv e Aids.

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Paula Lovely usa i linguaggi dell’arte drag per lanciare i suoi messaggi

Nonostante i passi avanti che sono stati fatti, lo stigma è ancora ben presente. Credi però che i motivi della discriminazione siano sempre gli stessi o in qualche modo sono mutati?

Io credo che la radice della discriminazione sia sempre la stessa e ed è particolarmente grave al giorno d’oggi che rimanga la stessa, considerando che invece le informazioni che abbiamo a disposizione sono diverse, perché la situazione è diversa. Nel ’91, se prendevi l’Hiv e finivi in Aids, morivi perché i farmaci non c’erano, dunque è normale che una narrazione che arriva da quegli anni o che riprende la storia di quegli anni debba per forza essere una narrazione drammatica di morte, di perdita e di lutti che ogni settimana seppelliamo un amico. Adesso invece il trattamento non solo ci fa vivere a lungo, ma fa anche un’altra cosa fondamentale: ci rende incapaci di trasmettere il virus sessualmente. Impendendo la replicazione del virus all’interno dell’organismo, fa sì che la quantità che rimane dentro, situata negli angoletti del corpo dove non riesce ad essere colpita, non sia una quantità sufficiente a generare un’infezione nel contatto con altre persone, anche facendo sesso senza preservativo, anche venendosi dentro e tutto il resto. Per cui questa cosa si è chiamata U=U, perché questo è stato lo slogan di un movimento nato a partire da questa consapevolezza: vuol dire appunto non rilevabile, che è riferito al numero di copie del virus nel sangue e nei liquidi uguale non trasmissibile, cioè è il risultato di questo processo. Se il virus è talmente poco che non si può trasmettere la persona diventa sicura, quindi questo è diventato uno strumento molto importante del nostro attivismo e molte persone piano piano hanno iniziato a informarsi su questa cosa e a smettere di avere questo terrore immotivato dell’Hiv e soprattutto delle persone che ce l’hanno.

Poi c’è anche la questione della profilassi da pre-esposizione…

Un altro elemento che è stato fondamentale, anche questo è relativamente una novità nel senso che si è iniziato a parlare di questa cosa attorno al 2012 e poi è arrivata in Italia 200 milioni di anni dopo e in un modo comunque non accessibile a tutti, è una cosa che si chiama PrEP. Lo dico per chi non lo dovesse sapere: è una pillola che si piglia tutti i giorni come se fosse un anticoncezionale, solo che invece di prevenire le gravidanze indesiderate, previene la trasmissione dell’Hiv ed è ugualmente, anzi più efficace, del preservativo a livello statistico. È una profilassi, come dice il nome, da pre-esposizione, quindi che si prende prima-durante-dopo, nel senso che è una cosa che si fa con una assunzione giornaliera oppure on demand, comunque con degli orari specifici, prima o dopo i rapporti. È un mezzo estremamente sicuro e soprattutto che ha avvicinato tante persone che non hanno l’Hiv all’informazione. Col fatto che la Prep uno la deve prendere prescritta da un infettivologo, quindi devi andare in ospedale, ti devi fare il test dell’Hiv e insieme ti devono fare sempre i test di altre malattie infettive, paradossalmente riesci a fare il sesso senza preservativo che avresti fatto anche prima rischiando di prendere l’Hiv, oppure anche rischiando sì di prendere altre infezioni, ma avendo anche un monitoraggio molto più frequente di quello che avevi prima, che ti permette di trattarle subito. Non c’è tanto il rischio di diffonderle, perché se io ogni tre mesi per prendere la PrEP mi devo testare, chiaramente non avrò avuto tanto tempo per spargere una gonorrea, una clamidia, come avrei fatto se asintomatico me la fossi tenuta per un anno. Ci sono stati anche tanti argomenti contro PrEP, anche se poi le statistiche hanno dato ragione a questo tipo di ragionamento che ho appena fatto, soprattutto in Paesi dove la PrEP, oltre ad essere stata implementata, è gratuita.

 

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Una domanda che ha dentro un po’ tutto e niente, ma è anche un po’ quella da cui nasce questo progetto: cosa bisogna ancora fare per abbattere lo stigma?

Secondo me è necessario fare tante cose. Una cosa che si è fatta ma troppo poco è agire sulla cultura, come iniziavo ad accennare prima: nel momento in cui noi attivisti, e qui mi fermo proprio sulla parola attivista senza mettere in mezzo le arti e le altre attività, andiamo alle conferenze, ci informiamo, ci aggiorniamo, prepariamo i materiali, implementiamo i servizi e andiamo alle manifestazioni, capiamo che ci sono anche altri elementi non scientifici ma sociali e politici e se noi non riusciamo a comunicarli in un altro modo fuori dal nostro ambiente degli addetti ai lavori, ci stiamo facendo le seghe fra di noi. E io credo che per portare un tema come l’Hiv in altri luoghi e ad altre persone sia anche necessario che sia strutturato e trattatoin un altro modo. Io non andrei mai a vedermi una persona che non ha l’Hiv e che parla di tutta la parte medica del passato, perché magari sono nato nel ’98 e non li ho visti gli anni in cui si moriva. Non muoio dalla voglia di andare a un evento del genere. Invece dobbiamo riuscire a crearcele le occasioni in di cui queste cose si può parlare in altro modo, o si può anche non parlarne ma creare piuttosto una messa in discussione. Il motivo per cui io faccio performance art poi è quello. Noi artisti che prendiamo l’Hiv e lo portiamo nella nostra arte e lo significhiamo come tema di ricerca artistica e come tema di esplorazione della condizione umana e dell’esistenza, portiamo chi ci vede a farsi lui, lei, farsi loro le domande e a trovare delle risposte da soli. Smettiamo di prendere l’informazione e passarla e nel nostro percorso artistico magari più che dare delle risposte generiamo delle domande. E io penso che questo sia estremamente importante perché alla fine la radice dell’empatia nei confronti delle persone oppresse, per qualunque ragione lo siano, nasce dal fatto di poter comprendere quel dolore, quella difficoltà. Per cui, ecco, io credo che quello che si è fatto poco e quello che si dovrebbe fare di più, insieme a tutto il resto sempre valido, è farci l’arte e farci la cultura. Prenderlo come un tema che ne attraversa altri.

 

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Qual è un messaggio che vorresti mandare alle persone che scoprono di essere sieropositive e magari non sanno come affrontarlo all’inizio?

Questa è una cosa sempre un po’ difficile per me, perché appunto anche attraverso l’associazione ho avuto anni di esperienza nel counseling alla pari, cioè nel supporto a persone con Hiv che lo scoprono un secondo prima di telefonarti o di presentarsi al check point per parlare con te. Ovviamente il messaggio per ciascuna persona è diverso nel momento in cui ci si trova al telefono o dal vivo, no? Uno cerca di fare quel “read the room” e capire qual è il bisogno della persona, qual è lo stato d’animo. Tuttavia, indipendentemente da questo, io mi sento sempre di lanciare un messaggio, e in questo caso mi sento privilegiato per il fatto di essere sieropositivo pubblicamente, perché magari una persona viene a parlare con me sapendo che c’è quel tipo di comprensione lì o aspettandola o comunque se non lo sa già la persona io mi posso permettere di dirlo senza ricadute sulla mia immagine perché ci sono già state, posso dire “Guarda che ce l’ho anch’io e non so se noti che pezzo di figa che sono, si invecchia benissimo”. A me personalmente la cosa che più mi ha aiutato nella prima settimana dalla diagnosi è stato un amico a cui ho telefonato. Per me era il ritratto della salute e della bellezza e lui mi fa: «Vabbè, capisco che tu sia scioccato, però non ti preoccupare, io ce l’ho da 10 anni e sto benissimo». E nessuna delle rassicurazioni fatta da nessun’altra persona era stata così efficace come questa, perché mi ha permesso di proiettarmi nel futuro con un’immagine vincente. Noi siamo favolosi, favolose e favolos*, e ce lo possiamo permettere perché l’Hiv è una cosa che cambia le nostre vite, è inutile fare finta di no, però non ci definisce come esseri umani, non ci impedisce di vivere in modo pieno, soprattutto avendo l’accesso alle cure. Non è una cosa per cui possiamo permettere che le altre persone ci discriminino o diminuiscano il nostro valore. Questa ultima parte è ancora la più complicata, a mio avviso, però è quella su cui stiamo facendo il miglior lavoro e speriamo che un giorno, insomma, essere visibili con l’Hiv smetta di essere un’impresa eroica che ci possiamo permettere solo se siamo maschi bianchi in Europa.

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