Oggi si celebra la Giornata del coming out, che rivendica la libertà di dichiarare al mondo ciò che si è come atto politico e rivoluzionario. In effetti il coming out come “venir fuori”, “venire allo scoperto” è, potremmo dire, un elemento caratterizzante dell’essere omosessuali, connaturato alla comunità LGBT e inciso sulla pelle di ogni suo membro. Sembra insomma che non si possa prescindere dall’attraversare questo momento catartico, questa tappa immancabile nella vita di ognuno: non farlo vorrebbe dire vivere nell’ombra, implicherebbe costruire la propria quotidianità su un cumulo traballante di menzogne, discolpe e giustificazioni.
Il coming out si configura insomma come un requisito che ci identifica e contraddistingue: io rivelo la mia identità sessuale al mondo perché è necessario, per vivere liberamente la mia esistenza, che la società eteronormata ne sia a conoscenza. Non si è mai visto infatti un etero fare coming out, semplicemente perché la condizione eterosessuale è storicamente e socialmente ritenuta “normale”, tale da non richiedere alcun tipo di esternazione dichiarativa: ad avvalorare questa tesi è l’etimologia del termine coming out, laddove coming out of the closet fa riferimento alla metafora dello skeleton in the cupboard / closet (“scheletro nell’armadio”), qualcosa che si ritiene imbarazzante o sgradevole e che si preferisce tenere nascosto. L’espressione “fare coming out” vorrebbe quindi indicare “l’uscir fuori” dalla vergogna e dall’equivoco di una condizione ritenuta a-tipica (laddove il prefisso a-, detto alfa privativo, indica mancanza e privazione) per “naturalizzarla” e conferirle piena legittimazione.
Il coming out non dovrebbe esistere. Potrebbe suonare pretenzioso, ma non lo è: in una società utopica caratterizzata dalla piena uguaglianza, dall’assoluta accettazione di ogni identità umana e dalla sincera fratellanza (di certo non quella coercitiva millantata dalle grandi religioni monoteiste) dichiarare le proprie preferenze sessuali dovrebbe risultare superfluo e irrilevante. I dati diffusi da Arcigay Agorà e pubblicati dal Corriere della Sera parlano chiaro: appena il 2,11% dei ragazzi tra i 14 e 17 anni si dichiara apertamente. E no, questo non è un dato positivo. Siamo, ahimè, ancora molto lontani dall’ideale fantascientifico di società civile avanzato poc’anzi, e l’esitazione a dichiararsi non è dettata dalla facilitazione progressista della contingenza, bensì da paura, pudore e vergogna che ancora pervadono vari strati della comunità LGBT del futuro. Perché i pregiudizi, in un contesto storico che parrebbe mai più favorevole di ora, permangono ancora. I ragazzini vengono ancora picchiati per strada dai propri coetanei, gli adulti vengono ancora sbattuti a terra dai propri amici (la percentuale di non dichiarati è ancora più altra nella fascia 25-34 anni, 4,82%). Essere ciò che si è senza doverlo necessariamente urlare al mondo è ancora estremamente difficile.
Quale soluzione auspicare? Come costruire un futuro dove non ci viene richiesto di dichiarare necessariamente le nostre preferenze sessuali?Continuando a lottare affinché arrivino una volta per tutte le tutele della legge, contro i soprusi dell’omofobia e delle discriminazioni. Portando avanti le battaglie per l’equiparazione del matrimonio, istituto che deve riconoscere l’uguaglianza di ogni tipo di amore. Rivendicando la libertà dei corpi e delle identità, affinché la nostra quotidianità diventi normalità per tutti, panica e totale. Così che, magari tra qualche anno, la Giornata del coming out non abbia più ragione d’essere celebrata.
In copertina: foto di Igor Pjörrt
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Difficile ma non impossibile. Io stesso penso che ognuno debba vivere la propria vita senza nascondersi e cercando di rispondere alle domande giuste senza mentire soltanto qualora venisse chiesto. Mi spiace per coloro che vivono in ambienti repressivi o poco sicuri, specialmente nella loro famiglia.