Apologia di Joanne, il romanzo di formazione di Lady Gaga

Molti, di fronte a una tale scarnificazione, si sono chiesti dove sia finita Lady Gaga. Ecco in che modo va letto Joanne, il suo ultimo lavoro discografico.

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6 min. di lettura

C’è un momento, diventato catartico, che accompagna l’uscita di un nuovo album di Lady Gaga: si potrebbe paragonare l’attesa dell’opinione pubblica a quella di una platea che impaziente attende che il sipario di un’opera teatrale si apra di nuovo, rivelando un atto ancora più sconvolgente, ancora più destabilizzante, che spinge ancora una volta il limite inquisitorio del lecito e del non lecito. Ecco, quel momento è quello del disvelamento della popstar, quell’attimo in cui il personaggio mostra la nuova propaganda, la nuova linea politica, la nuova estetica che contraddistinguerà la rappresentazione del futuro.

Ma questa volta Lady Gaga ha davvero sconvolto tutti: aperto il sipario lo ha richiuso dietro di sé, abbandonando i lustrini, le carni, le impalcature nell’ombra. Solo il suo corpo oltre il baratro, nudo e crudo. Questa sono io, questo è Joanne. Joanne è il nome della sorella di suo padre, morta prematuramente a 19 anni: quel nome il padre gliel’ha affibbiato in ossequio a lei. “Zia Joanne per me è speciale, è morta a 19 anni e io alla stessa età ho iniziato a inseguire il sogno di diventare una popstar. È come se si fosse reincarnata in me”, spiega Stefani.

Ci sono due lati di me: quello totalmente ribelle, e poi un altro, quello della figlia di mio padre. Quindi quest’album non va necessariamente in una delle due direzioni, ed è per questo che il titolo è Joanne. Questo è il mio nome di mezzo, questo è il centro di me”, continua. Ed è proprio questa, dopo il primo ascolto del disco, l’impressione che si ha: quella di un lavoro che non è né bianco né nero, di un cambio di rotta deciso ma fin troppo prudente. L’universo dei little monsters è diviso: c’è chi lo acclama come un capolavoro e chi, legato all’immaginario gaga-esque del passato, ne è rimasto profondamente deluso. Ciò che accomuna le due linee di pensiero però è il senso di disorientamento, che lascia innegabilmente spiazzati.

Joanne è un lavoro scarnificato, ridotto all’essenza, paragonabile concettualmente a un osso di seppia montaliano: sembra essere lo scheletro dei precedenti album, che vivevano di accumulazione barocca ed esagerazione.

La musica si inserisce in questo contesto: gli arrangiamenti sembrano abbozzati in una sola notte brava agli studios coi ragazzacci della musica che conta, Mark Ronson, Kevin Parker, BloodPop e Father John Misty. Il disco ha una sua unità, che però sembra rimanere sempre sottotono, senza esplodere, come per paura di deludere chi aspettava forse la nuova Bad Romance. Le ispirazioni sono molte: l’immaginario della tradizione americana (Elton John ha definito questo disco “ il Tapestry di Gaga”), il country, il soul. La canzone di apertura, Diamond Heart, sembra un brano di Springsteen reincarnato in una drag queen; A-YO ha una sonorità da jam rock d’annata; Come To Mama è un mix tra Amy Winehouse degli esordi e Motown; Dancin’ In Circles, prodotta con Beck, è la canzone che ascolteresti con un cappello da cowboy americano in vacanza in Jamaica. Tutto ciò potrebbe essere interessantissimo se solo le premesse fossero portate a termine: la contaminazione non va oltre un certo limen e il risultato è un prodotto ibrido, che non è pop e non è nemmeno altro.

Ma la scarnificazione è applicabile soprattutto a livello della dialettica, in primis sui testi. “Le cose che ora riesco a dire in un modo più semplice, chiaro e conciso, prima le formulavo in un modo complicato e criptico, in linea con come mi sentivo”, chiosa Gaga. La retorica ostica, metaforica e provocatoria delle sue canzoni, che era un vero e proprio stilema, sembra essersi ritirata in se stessa: l’enciclopedico caleidoscopio di riferimenti che le permeava, da Michelangelo a JonBenét Ramsey, lascia spazio a vocaboli diretti, secchi, aridi.

Un altro dato interessante è il mutamento radicale del pensiero “filosofico” sotteso ai testi: la Gaga positivista, motivazionale, superoina contemporanea ora propone riflessioni amare sul nostro tempo (I confess I am lost / In the age of the social, canta in Angel Town), sulla morte, sulla politica. “Where are our leaders? I’d rather save an angel down”, recita ricordando Trayvon Martin, il ragazzino di Black Lives Matter ucciso a Miami nel 2012, alla vigilia di un’elezione presidenziale che potrebbe cambiare radicalmente il destino del mondo intero.

Di fronte a tale destrutturazione ci si chiede dove sia finita Lady Gaga. È nascosta sotto il cumulo delle sue ceneri, arse forse troppo presto? È vittima della sovraesposizione, dell’era mediatica, della cultura cibernetica? “Direi semplicemente che sono più grande e in uno stato di realismo più intenso. Cerco, attraverso i miei testi, di parlare in un modo che non sia troppo naïf, in un modo nel quale le persone comuni che vivono in questo mondo possano immedesimarsi”, spiega lei. “Significa lasciare che il dolore che provo sia presente nel disco, senza nasconderlo. Mia madre iniziò a piangere quando iniziai a registrare queste canzoni. Gli chiesi ‘Cos’hai?’, e lei mi disse: ‘C’è così tanto dolore nella tua voce ora’”.

A proposito di questo tema sul web sta circolando in questi giorni un video, risalente ad un’intervista di quattro anni fa, in cui Gaga sembra predire il proprio futuro.

Quando nella carriera di Bowie l’era di Ziggy Stardust finì, i fan impazzirono. Iniziarono a chiedersi dove fosse finito, lo volevano indietro. Ma non era andato da nessuna parte, era lì ma stava semplicemente attraversando una rinascita artistica, una transizione”. “Stai dicendo che in futuro non sarai più Lady Gaga?”. “No, sarò sempre Gaga. Ma forse Gaga un giorno inizierà a vestirsi diversamente, a spogliarsi di tutto, a crescere come artista”. Dopo quattro anni è Joanne a ripetere lo stesso concetto sul Sunday Times: “È per questo che sono stata sempre molto scettica riguardo alle persone che commentavano solo le mie performances, come se fosse quello il punto. Il punto era quello di disorientare. Come per Bowie, quando vedi che c’è dell’altro e che è perfino più brillante come musicista che come qualcuno che si ricorda solo per la sua fantastica presenza”.

È quindi nell’ottica di un romanzo di formazione che bisogna osservare questo cambiamento, di un bildungsroman che Lady Gaga ha vissuto sotto gli occhi del mondo e all’unisono coi suoi fans, che ne condividono le coordinate temporali. Stefani Germanotta come ogni essere umano attraversa le sue fasi ed ora è nei suoi trenta, una nuova era della propria vita davanti, una nuova consapevolezza carica delle esistenze di tutti i little monsters, che come lei sono cresciuti negli anni e ancora in lei vedono il modello di riferimento primario, nonostante tutto. Gaga sembra aver attraversato li labirintico Eden della fama fino ad esserne arrivata al centro, rischiando di rimanerne uccisa; poi la fuga, verso una nuova e recuperata realtà delle cose. Che poi l’oggetto di questa transizione sia un album forse non totalmente riuscito, forse ancora troppo inficiato dalla paura di saltare dal cerchio sicuro del pop a quello della musica ruvida e cantautoriale poco importa; non c’è spazio per la nostalgia e per il rimpianto del mondo passato, questa è l’evoluzione di Lady Gaga: prendere o lasciare, accettare lo scorrere del tempo o vivere come Gustav von Aschenbach.

Joanne è l’album per i millennials che sono cresciuti, che non hanno più bisogno di canzoni che forniscano risposte ai problemi dell’adolescenza, ma di brani che li accompagnino nei piccoli drammi della vita quotidiana. Joanne è una presa di coscienza che non è un ripudio in toto del passato. Singolare in questo senso è notare un’usanza rituale di Gaga: ella visita l’appartamento dove ha vissuto prima di diventare famosa, il monolocale nel quale ha scritto The Fame, ad ogni lancio di un nuovo album; tradizione è sostare sul portone e suonare casualmente il citofono degli inquilini, come faceva da ragazzina.

Ieri sera, per il lancio dell’album, Gaga ha tenuto un concerto al Bitter End, un piccolo pub di New York che i fan più fedeli conoscono bene: è il luogo dove Stefani Germanotta, esattamente 10 anni fa, debuttò come cantautrice. C’era qualche centinaio di persone e nessuno avrebbe mai immaginato cosa sarebbe successo di lì a due anni.

Il gesto assume un valore simbolico: Joanne è un album rivolto a una generazione che sta diventando adulta e che non ha più voglia di indossare un’aragosta in testa per brillare: ciò che davvero conta oggi per Lady Gaga è la possibilità di essere libera, semplice, pura come una bambina. “In questo mondo cerchiamo tutti disperatamente di mantenere un’immagine perfetta di ciò che siamo”, dice Stefani. “Ma il momento più felice e autentico che io possa mai provare è quando sono come quando ero piccola”.

Joanne fa questo: va avanti senza curarsene troppo, ma guardando indietro. “Girl, where do you think you’re goin?”, chiede Gaga al sé antico nel brano omonimo. Senza riuscire a darsi una risposta.

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Steve Pearl 22.10.16 - 7:41

E bravo il nostro giornalaio che con questo esercizio di stile ha voluto dimostrare di aver imparato ad usare alcuni vocaboli... raccontando il nulla. Già dal titolo presuntuoso ad arrogante si percepisce la sequela di cazzate con le quali, chi decide di procedere con la lettura, dovrà fare i conti. "La retorica ostica, metaforica e provocatoria delle sue canzoni, che era un vero e proprio stilema, sembra essersi ritirata in se stessa: l’enciclopedico caleidoscopio di riferimenti... bla bla bla" Stai parlando di Lady Gaga... ripeto: Lady Gaga. Questa donna ha il solo merito di capire quando è ora di cambiare per continuare a fare si che le solite 4 frocette paghino urlanti per i sui dischi e spettacoli. Non ha il merito della modestia... paragonarsi a David Bowie è veramente troppo: sei solo una che canta canzoncine... e per quanto vorrai cantare non arriverai mai dove è arrivato lui.

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