Signorilità. È proprio la sua signorilità raffinata, senza tempo, che colpisce. Una compostezza elegante non altera né snob, di gran classe. Alberto Arbasino è probabilmente il più grande scrittore italiano gay vivente, ha fatto divertire intere generazioni di omosessuali (e non solo, certo) con le avventure intellettuali e mondane del crocchio melomane dell’ormai classico “L’anonimo lombardo” o le peregrinazioni assetate di vita dei memorabili Antonio e l’Elefante nello scatenato “Fratelli d’Italia”. Lo conosciamo in una stanza d’albergo dello stiloso Hotel Victoria di Torino in occasione della sua lectio magistralis al Piccolo Regio in qualità di vincitore del Premio Bottari Lattes Grinzane nella sezione “La Quercia” per il romanzo “L’ingegnere in blu”, uscito nel 2008 da Adelphi, sul suo venerato maestro Carlo Emilio Gadda.
La parola gay non le piace ma l’accetta. Adesso si usa molto il termine “queer”, che cosa ne pensa?
“Queer” è un termine antico che è ritornato di moda. C’è anche un titolo di Burroughs, pubblicato da Adelphi (“Checca”, n.d.r.). Si usava già ai suoi tempi.
Lei ha dichiarato che la letteratura gay è settoriale come quella sulle barche, sui funghi e sul Molise. Conta ancora così poco?
Non lo so, francamente. Di letteratura gay se ne legge una quantità, un’infinità, non so se sia ancora così settoriale. Rispetto ad altri settori più delimitati è in effetti più vasta, nel suo insieme.
Dice di non avere discepoli. Eppure molti scrittori come Pier Vittorio Tondelli, Andrea Demarchi e Silvia Ballestra la riconoscono come un maestro e fonte d’ispirazione.
Tondelli sì. C’era un precedente: quando Tondelli scrive “Un weekend postmoderno” si ispira molto alla mia “Parigi o cara” uscito nella Biblioteca di Letteratura diretta da Giorgio Bassani per Feltrinelli. Bassani diceva: “li metto tutti insieme, questi pezzi, perché costituiscono un libro di formazione”. Siccome il libro di formazione si può scrivere una volta sola nella vita, durante la formazione medesima, non so se questo di Tondelli sia da considerare davvero un libro di formazione!
Per la prima volta, grazie a lei, nella letteratura italiana la visione dell’omosessualità non è vittimistica né autopunitiva, com’era invece in Pasolini, Testori e Coccioli. L’introduzione in Italia del concetto di camp è dovuto a lei. Quanto ha influito il camp nella sua creazione letteraria?
Camp va benissimo! “La Narcisata” e “La Controra” sono tipici racconti camp, lo erano anche quando non era assolutamente di moda l’uso del termine “camp”. “Gay” non so, non è che siano particolarmente “allegri”, considerando “gay” come suo sinonimo.
Il leggendario “Homintern”, come l’aveva definita lei, la cosiddetta lobby gay, esiste ancora anche dopo “La caduta dei tiranni” e del comunismo?
Non lo so. Allora c’era sicuramente in Russia e Polonia. Era più che altro dovuto al fatto che le pulsioni omosessuali sono sempre esistite nei giovanotti di varie nazionalità! Dipendono solo dall’età e dalle occasioni.
Dov’è nata l’ispirazione di un racconto bellissimo e innovativo come “Giorgio contro Luciano”, che sviscerava per la prima volta le problematiche sentimentali gay?
È vero, era abbastanza innovativo. Soprattutto per il fatto che l’amore omosessuale si considerava in maniera naturale e, nello stesso tempo, naturalistica. Poi c’erano tutte le note coi rinvii e i richiami insieme ai discorsi molto seri e severi, impegnati e impegnativi. “Giorgio contro Luciano” è nato in maniera spontanea.
Come mai nelle tre edizioni di “Fratelli d’Italia” cambia il nome del protagonista da Antonio in Andrea e poi nuovamente Antonio?
In una certa fase veniva più naturale Antonio, in un’altra mi sembrava più disinvolto Andrea, poi di nuovo Antonio.
Lei viene premiato col Bottari Lattes Grinzane per il suo libro “L’ingegnere in blu” su Gadda con cui la sua opera ha molte affinità: “L’Anonimo Lombardo” e la sua rappresentazione del demi-monde milanese ricorda certi disegni de “L’Adalgisa”. Gadda non ha mai scritto una riga sull’omosessualità, eppure l’omosessualità sembra un elemento vitale e realistico della sua poetica se pensiamo al garzone del Pasticciaccio o al capitolo tagliato forse perché gay.
Era vitale e realistico, in fondo, né più né meno dei mercatini di Piazza Vittorio, dei salumieri e dei rivenditori di verdure. Ed era velata perché c’era un certo ritegno, un certo decoro da conservare. D’altra parte se ne accenna!
Che rapporto si era creato tra di voi?
Non era solo una fonte di ispirazione, era un maestro unico. Si tratta dello scrittore più grande del Novecento italiano. In Gadda c’è una mescolanza di termini alti, bassi, antichi, moderni, tecnici o dialettali per cui qualunque sua frase ha un suono unico. Si capisce subito se è sua o no.
E a livello personale? Vi vedevate regolarmente?
Abbastanza spesso. Soprattutto per una ragione: con me non c’era da discorrere di argomenti editoriali, lavorativi, economici, anticipi da restituire o non restituire. Erano soltanto motivi di conversazione, di allegria. Quindi ci si vedeva volentieri, una o due volte al mese. Lui gradiva abbastanza restare a tavola a lungo e conversare di argomenti variamente piacevoli.
Che carattere aveva?
Era molto cupo e ombroso. Ma era capace di piacevolezze e allegrie.
Le manca?
Sì, molto.
A quale opera di Gadda si sente più legato adesso, al punto magari da scriverne un saggio?
Sarebbe troppo semplice dire il Pasticciaccio e “La cognizione del dolore”. Non si è mai all’altezza di quei testi, forse per scrivere un saggio tornerei su “L’Adalgisa”.
Chi erano gli altri suoi amici? C’era un’idea di comunità gay?
Allora non c’era nessuna idea di comunità, né gay né non gay. I miei amici erano Sandro De Feo, Ercolino Patti, Vittorio Caprioli e Peppino Patroni Griffi. Si stava insieme nei caffè di via Veneto.
Che rapporti aveva con Pasolini e Visconti?
Pasolini non veniva in via Veneto, lui andava nelle periferie! Visconti era un signorotto di tipo tradizionale che aveva una piccola corte. Si divertiva a far litigare i cortigiani tra di loro. Si era arrabbiato per una mia recensione ma lo hanno fatto in tanti, da Antonioni a Moravia.
Lei ha codiretto “La bella di Lodi” di Missiroli tratto dal suo romanzo omonimo. Girerebbe un altro film?
Non lo so, sono state esperienze abbastanza uniche. Dopo tanti anni forse non avrei voglia di lavorare in un gruppo, in un collettivo.
Che cosa direbbe a un giovane che non conosce la sua opera?
Non frequento i giovani d’oggi, avendo più di ottant’anni. Gli direi di comprare il Meridiano della Mondadori con i miei lavori.
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