Le leggende del rock lgbt – #4 – Morrissey

L’ex leader degli Smiths, ultimo dandy, canta anche da solista amori e struggimenti gay

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Gay.it continua il suo viaggio musicale alla scoperta delle icone del rock dall’orientamento omosessuale e bisessuale, un lato poco esplorato ma non secondario nella cultura LGBT. Questa serie di contenuti è offerta dal nostro partner Antony Morato, che nella collezione fall winter 2015 racconta un uomo capace di innovare lo stile italiano e di viverlo con spirito cosmopolita e metropolitano, per sua natura viaggiatore, curioso e con un mood raffinatamente rock. La prima puntata è stata dedicata a Janis Joplin, la seconda a Lou Reed e la terza a Freddie Mercury.

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Caro, vecchio Moz, ultimo dandy. Parlare o scrivere di Morrissey significa immergersi, almeno per chi ruota intorno alla quarantina, nella colonna sonora della propria adolescenza, quando gli Smiths squarciavano il silenzio della propria camera da letto – quanti poster di Moz appesi, quanti? Non erano forse il primo tentativo di coming out silenzioso? – sciogliendo il disagio nel cuore con quell’alternative rock che sembrava arrivare da una seconda Swinging London, malinconico e trascinante, ma a tratti solare e speranzoso, sì, anche un po’ snob e distante, che intanto solcava la nostra giovinezza e non solo i dischi sempre più rigati (c’erano anche le musicassette, poveri nastri abusati).

This Charming Man, e ci credevi. The Boy With The Thorn in his side, e ti struggevi. What Difference Does it Make? E capivi che tanto anormale, forse, non lo eri nemmeno tu: “Che differenza fa? Nessuna. Ma ora te ne sei andato, e il tuo pregiudizio non ti scalderà stanotte”. E sulla copertina del singolo ci fu pure una diatriba, con Terence Stamp in una celebre foto di scena de Il Collezionista che chiese di cambiarla e poi diede la sua approvazione.

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Della sua omosessualità, comunque, Morrissey non ha mai fatto una bandiera, e non risulta un coming out ufficiale. In un’intervista del 1984 dichiarava: “Vorrei liberare il mondo dagli stereotipi sessuali. Una sorta di profeta del quarto sesso. Il ‘terzo sesso’ è stato provato, ma ha fallito. Io voglio qualcosa di diverso. […] La gente è solo sessuale, il prefisso è irrilevante”. All’Observer, nel 1992, raccontava: “Uno dei miei incontri fisici è stato con un uomo, circa dieci anni fa. È stato solo un brevissimo momento assurdo e divertente. Non era amore, non l’ho mai sperimentato. Ho dormito anche con delle donne. Mi sento completamente aperto e se un domani incontrassi qualcuno, maschio o femmina che sia e ci amassimo, lo proclamerei apertamente. Penso che le persone debbano essere amate indipendentemente dal loro sesso e dalla loro età”. Nel 2013 chiude la questione definendosi ‘humasexual’ in una libreria svedese per presentare Autobiography (ma la storia d’amore col fotografo Jake Owen Walters durata due anni filtra proprio dal suo libro).

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C’è però un prima e un dopo nella feconda carriera di Morrissey. La culla degli Smiths, prima, voce carismatica – forse troppo, quasi a ombreggiare permanentemente gli altri membri del gruppo: Johnny Marr, Andy Rourke e Mike Joyce – e poi fulgido solista dal 1988, con rottura irreparabile e controversia legale col batterista Mike Joyce: “Piuttosto che riformare gli Smiths – dichiarò nel 2006 – mi mangerei i testicoli”. Tutto dire, pronunciato da un vegano irreprensibile. Sì, quell’integralismo anti-macello esplicito già nel titolo del secondo album degli Smiths, Meat is Murder, il più politico, contro la Thatcher e i dispotismi educativi (The Headmasters Ritual), il bullismo e la violenza anche omofobica (Rusholme Ruffians).

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Ma l’album più bello degli Smiths resta probabilmente il terzo, quel supercult di The Queen is Dead che contiene alcuni pezzi fondativi: il capolavoro struggente The Boy With The Thorn In His Side – sulla copertina del singolo c’è un giovane e saltellante Truman Capote! – e l’anticattolica Vicar in a Tutu, quella in cui il prete danza in calzamaglia ricevendo le offerte non tanto per la Chiesa quanto più per il suo spettacolino camp. Ma c’è anche quell’indimenticabile ballata romanticamente melò che è There Is A Light That Never Goes Out, il cui video con le biciclette in gaio rondò, intorno alla foto incollata al muro di Oscar Wilde, fu girato da Derek Jarman (come quello del singolo The Queen Is Dead – ah, quell’angolo biondo seminudo con girasole! – e dell’immortale Ask contenuto nel live album Rank, sprone definitivo a vincere l’introversione rivolto anche ai gay timidelli).

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Del successivo, il polimorfo Strangeways, Here We Come, oltre alla leggendaria Girlfriend In A Coma, ricordiamo soprattutto Death at One’s Elbow (Morte a Portata di Mano), il cui titolo è tratto da una nota del diario del drammaturgo Joe Orton assassinato nel 1967 dal suo amante-collaboratore Kenneth Halliwell, la cui vicenda fu ricostruita da Stephen Frears nel vibrante Prick Up – L’importanza di essere Joe.

Con Viva Hate, primo album solista del 1988, esplode un Morrissey a tutto tondo, irriverente e narciso, sempre antithatcheriano senza compromessi (Margaret on the Guillotine, perfidamente tagliente) ma anche romanticamente pop: Everyday Is Like Sunday, sottofondo irrinunciabile per gli innamorati tardo eighties. Ne sarebbero seguiti altri nove, di album: irrinunciabile Vauxhall and I (1994) – Vauxhall è un quartiere meridionale londinese denso di club e bar gay – con la magnifica The More You Ignore Me, The Closer I Get, l’unica ad avere successo anche negli States, e la ciondolante The Lazy Sunbathers, perfetta eco sonnolenta da spiaggia gay assolata.

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La testamentaria Irish Blood, English Heart, diventata col tempo il marchio di fabbrica del ‘nuovo’ Morrissey, è contenuta nel più personale dei suoi lavori, You Are The Quarry (Sei la Preda) del 2004. Nel successivo di due anni dopo, Ringleader of the Tormentors, Moz parla anche del suo soggiorno a Roma dove fu prodotto il disco e lui stesso si trasferì per un periodo (in You Have Killed Me cita Pasolini e Visconti).

L’ultimo lavoro è dell’anno scorso, World Peace Is None Of Your Business in cui spicca l’ironica I’m Not a Man, e in questi giorni Moz è in Sudamerica per il suo lungo tour con due sole tappe italiane (Napoli e Cesena, già toccate ad ottobre) dopo aver sconfitto, pare, un tumore che l’ha assediato per un anno e mezzo. Ha anche scritto il primo romanzo di finzione, List of The Lost (Penguin Books), stroncatissimo, però, persino con toni irrisori dal Guardian.

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Ma, come dice Moz in L’importanza di essere Morrissey. Ventotto conversazioni con il leader degli Smiths (Isbn Edizioni, 2010): “Ho passato gli ultimi diciotto mesi a criticare tutti, a stroncare persone, distruggerle, e alla fine mi sono reso conto che non ha senso. Perché poi le incontri, e scopri che alcune di loro sono molto affabili. Altre invece sono veramente nauseanti. […] Ma ho una nuova politica. Non voglio più demolire nessuno”.

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