Togay, anteprima: i vincitori del festival torinese del cinema gay

Il toccante doc musicale Gardenia si aggiudica il Premio Ottavio Mai al 30esimo TGLFF.

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Vince il camp trattenuto, dolente, di mistificante fascino emanato dal toccante documentario musical-teatrale Gardenia del tedesco-canadese Thomas Wallner. La giuria del 30esimo Turin Gay & Lesbian Film Festival composta da Lorenzo Balducci, Yair Hockner e Beatrice Merz gli assegna il Premio Ottavio Mai “per la straordinaria abilità di sapere raccontare il coraggio di un gruppo di artisti gay e transessuali in età avanzata che portano in scena dolorose esperienze di vita, nutrite da un incondizionato amore per il teatro. La loro arte è un puro e potente messaggio di speranza per il pubblico che li osserva. I protagonisti di questa toccante vicenda non si accontentano di sopravvivere, ognuno di loro combatte la propria battaglia contro l’odio, l’indifferenza, il pregiudizio, conquistando la propria dignità sul palcoscenico e nella vita. Magistralmente realizzato, in una continua alternanza tra il documentario e la messa in scena, ogni movimento della macchina da presa si trasforma in una danza”.

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Nell’emozionante Gardenia si rievoca l’omonimo spettacolo di successo rappresentato dapprima a Gand per la messa in scena di Frank van Laecke e le coreografie di Alain Platel per poi arrivare in venticinque nazioni con più di duecento repliche in due anni. Otto transgender sessantenni e un omosessuale si truccano sul palco, si mostrano al pubblico in scintillanti mises femminili, creano scenografie in stop frame con la loro semplice presenza scenica e qualche sedia, cantano con bassi profondi Somewhere over the rainbow e Cuccurucucù (da brividi). Ma Gardenia sta per finire, il sipario calerà per l’ultima volta, così le dive trans-agés raccontano la loro quotidianità domestica, la paura della solitudine, la nostalgia per le conquiste amorose giovanili, l’emarginazione sociale. C’è qualcosa di magico, disperatamente testamentario e orgogliosamente vintage in Gardenia, e speriamo davvero che qualche distributore, dopo questa meritata vittoria, lo porti nelle sale italiane.

E proprio il genere documentario – che quest’anno, purtroppo, non ha più un suo concorso autonomo – ci è sembrato più vitale e interessante del cinema lgbt di finzione presentato al Togay: l’appassionante Tab Hunter Confidential ricostruisce con notevole varietà di materiale video e fotografico, vita e carriera di un idolo delle adolescenti americane negli anni ’50, biondo e muscoloso, arrivato al successo grazie a titoli popolari quali L’isola del peccato e Le colline bruciano, segretamente gay (si faceva fotografare in locali alla moda con Natalie Wood per poi uscire dal retro e raggiungere Anthony Perkins, con cui ebbe una relazione).

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Hunter ha adesso 83 anni, è fidanzato da più di tre decenni col produttore Allan Glaser, si dedica alla sua più grande passione, l’equitazione (nel doc il suo collega Clint Eastwood afferma invece di non amare i cavalli, perché troppo pesanti e col cervello grande come una nocciolina). Racconta di aver avuto lunghe relazioni gay anche in gioventù, la prima delle quali fu con un pattinatore artistico – un’altra delle sue passioni sportive – e di essere stato riscoperto negli anni ’80 grazie al maestro del trash John Waters che lo volle in Polyester.

Anche i doc italiani si sono difesi bene: è un lavoro lucido e potente, Non so perché ti odio – Tentata indagine sull’omofobia e i suoi motivi di Filippo Soldi, presentato l’altro ieri al Turin Gay & Lesbian Film Festival e realizzato in collaborazione con Gay.it (di cui potete vedere il trailer qui ). Evitando un approccio a tesi sull’argomento, si indagano con ammirevole finezza registica e chiarezza espositiva le motivazioni psicologiche – sostanzialmente riconducibili a ignoranza e paura del diverso da sé – che portano a maturare il crimine omofobico o giustificarlo indirettamente negando le istanze per una normativa a riguardo. Un ragazzo laziale denuncia 22 ricoveri al pronto soccorso per violenze ripetute; a un taxista gay viene fatta esplodere la testa con un fucile; anonime chiazze di sangue sul cemento testimoniano l’ennesimo suicidio di un giovane omosessuale; il nostro blogger Dario Accolla ricorda le vessazioni subite da bulli omofobi durante l’adolescenza e le tentazioni di farla finita gettandosi dal balcone; la mamma di Andrea, il ragazzo suicida ‘dai pantaloni rosa’, racconta tutto il suo strazio per la morte del figlio.

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Il regista riesce a farsi accogliere nella sede di Forza Nuova (“sono stati gentili e disponibili, uno di loro mi ha mostrato che leggeva Mishima”, ci racconta Soldi) dove tre soci iniziano a farneticare sulla “possibilità di sposare i gatti se si concede il matrimonio gay”. “Non ho mai usato il termine omofobia – continua il regista – e dicevo loro di fare una ricerca su temi riguardanti la sessualità. Tutti mi dicevano di non essere omofobi, era difficile far emergere il sottotesto delle loro parole. C’è stata una ‘eterosessualizzazione’ dello studio e della troupe con l’avvocato Amato, presidente di Giuristi per la vita, per non farlo sentire in un covo di nemici! Ho scelto Maria Laura Annibali per il finale perché raccontare per una vita di essere stata amante di un politico sposato e con figli è un’autoaggressione violentissima. Adesso mi dedicherò a un doc sul mondo lesbico”. Non so perché ti odio uscirà in dvd il 19 maggio per Cecchi Gori con interviste inedite contenute negli extra.

La proiezione di questo importante documentario è stata preceduta da un interessante dibattito organizzato dal TGLFF insieme all’Ordine degli Psicologi del Piemonte e dal Coordinamento Torino Pride.

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“Vorrei che i miei colleghi vedessero questo efficace documentario – ha dichiarato Maria Spanò, avvocato e Consigliera di Fiducia dell’Università di Torino -. Solo nel diritto del lavoro c’è una tutela contro le discriminazioni di genere. Una ulteriore carenza legislativa risulta nel diritto penale. Se commetto violenza nei confronti di un omosessuale verrò punito per violenza privata, ingiurie: non è la stessa cosa. Il disegno di legge Scalfarotto sull’omofobia e transfobia, faticosissimo percorso normativo approvato alla Camera nel 2003, giace al Senato da allora. È il tentativo di estendere anche ai reati commessi per omofobia e transfobia la disciplina dei cosiddetti reati d’odio della legge Reale che puniva i reati commessi con finalità d’odio razziale e per motivi religiosi. Un impianto normativo ce l’abbiamo, si trattava di estenderlo, era un percorso lineare. Sostanzialmente sono due le grosse eccezioni mosse: che motivo c’è di un reato ad hoc, essendoci il reato di violenza privata e lesioni? La seconda è: attenzione, nei reati d’odio si tocca la libertà d’opinione, si va a punire ciò che è tutelato dall’articolo ventuno della Costituzione. Le obiezioni sono deboli, giuridicamente non stanno in piedi”.

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L’epopea dello storico bastione gay del Cassero a Porta Saragozza è invece raccontata nell’interessante Torri, checche e tortellini di Andrea Adriatico.“È stato molto faticoso – ha dichiarato l’attrice bolognese Eva Robin’s alla presentazione di ieri – però ce l’abbiamo fatta a portare a casa questo piano sequenza durato ben sette minuti (in cui Eva interpreta un testo di Mario Mieli, n.d.r.) che Andrea con pazienza è riuscito a estorcermi. Grazie ad Andrea e alle testimonianze che il documentario porta”. “Ringrazio Andrea – aggiunge il Presidente del Cassero Vincenzo Branà – perché ci voleva uno sforzo per ricostruire questa storia che è piena di lacune ma ha significato perché è una grande testimonianza. Ringrazio anche tutte le persone in sala e chi non c’è qui oggi perché porto la responsabilità di questi 35 anni di storia ma ne porto anche un grande onore e a loro devo questo”. Attraverso materiale di repertorio e interviste a storici personaggi legati al Cassero quali Valérie Taccareli, Walter Vitali, Beppe Ramina e Stefano Casi, si ricostruisce l’atmosfera famigliare della storica istituzione bolognese dove “si suonava il campanello e chiunque poteva aprire la porta”. Assegnata all’Arcigay dall’82 al 2002 quando si trasferirà alla Salara, sempre osteggiata dalla Chiesa che non voleva lasciare le chiavi perché il papa di allora Woytila, avrebbe celebrato proprio lì una messa in onore alla venerata Madonna di San Luca, vede anche l’avvento teatrale di un diciottenne Alessandro Fullin in uno degli spettacoli di vaudeville camp del KGB, il creativo K.G.B.&B., ossia il Kassero Gay Band and Ballet.

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Tra i lungometraggi di finzione, il migliore ci è sembrato Je suis à toi (Sono tuo) del belga David Lambert, vincitore di una menzione speciale del Queer Award. Un’opera insolita e personale, un bizzarro ‘film-baguette’ dal cuore tenero e crosta croccante e dura – anzi hard: vedi le torbide scene nel sex club – su un giovane argentino, Lucas (Nahuel Pérez Biscayart, bravissimo) che s’insedia a casa di un corpulento panettiere belga innamorato di lui, Henri (Jean-Michel Balthazar) ma quando questi cerca di farlo lavorare con lui come apprendista, Lucas rivolgerà le sue attenzioni alla dipendente vedova Audrey (Monia Chokri). Fra ambigue fluttuazioni del desiderio, bisogno ossessivo d’affetto, folklore musicale belga e un’atmosfera straniante, il talentuoso regista di Hors les murs si conferma un autore estremamente interessante da tenere d’occhio.

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