Abbiamo intervistato al Torino Film Festival la regista inglese del curioso documentario Grace Jones: Bloodlight and Bami.
Non è celebre come i fratelli attori Ralph e Joseph, eppure Sophie Fiennes, che condivide con loro lo stesso, splendido taglio degli occhi, è un’interessante documentarista indipendente dalla parlantina vivace e coinvolgente.
La incontriamo in un elegante hotel del Quadrilatero torinese in occasione della presentazione di Grace Jones: Bloodlight and Bami, un curioso documentario presentato al 35esimo Torino Film Festival in cui vengono alternate lunghe performance dell’artista oggi 69enne – ma dimostra vent’anni di meno – a un viaggio in Giamaica dove Grace ritrova la sua famiglia d’origine. La vediamo poi a Parigi dove rincontra, ed è uno dei momenti più toccanti, il padre di suo figlio Paulo, l’illustratore Jean-Paul Goude che ha creato tutte le copertine dei suoi dischi.
Grace Jones: Bloodlight and Bami (“bloodlight” è la luce rossa delle sale d’incisione, “bami” una focaccia giamaicana di farina e tapioca) uscirà come evento speciale al cinema il 30 e 31 gennaio distribuito da Officine Ubu.
È la prima volta che Sophie Fiennes visita Torino, città che le piace e trova “molto regale”.
Come ha conosciuto Grace Jones?
L’ho incontrata perché avevo fatto un film su suo fratello, un pastore pentecostale. Parlavo della relazione tra la Chiesa e i suoi sermoni, della vita di questa congregazione comunitaria. Grace vide il film, le piacque e mi disse: “Tu capisci da dove vengo”. Alcune compagnie televisive le avevano proposto dei biopic che non le interessavano. Mi chiese di fare qualcosa insieme. È iniziato un esperimento collaborativo. Ogni tanto mi chiamava, mentre facevo altri lavori, e mi chiedeva di andare con lei, per esempio in Giamaica. Siamo rimasti tre settimane. Voleva confrontarsi con la sua giovinezza ma i genitori non volevano parlarne.
È stata Grace Jones a imporre lo stile del film mentre lei voleva fare qualcosa di diverso?
Lei diceva che quando concepisci un figlio non sai come verrà, semplicemente ti dai da fare, catturi ciò che avviene, non c’è uno script. Dopo cinque anni sapevo di avere abbastanza materiale ma non potevo finire il film senza una performance ripresa nel modo giusto. Ho aspettato che lei realizzasse questa performance a teatro. Lei adora fare fotografie del cielo, tutto il tempo. Questo senso del tempo meteorologico che cambia, questa fluidità, le è propria: lei è in continuo mutamento.
Qual è il consiglio migliore che le ha dato una donna così carismatica dopo una frequentazione così lunga?
Di non avere paura, di essere coraggiosi.
Mostra spesso Grace con la sua famiglia…
Per lei la famiglia è molto importante. La gente pensa che lei sia storicamente una folle creatura dello Studio 54 perché è nel nostro immaginario ma era un metodo promozionale.
Andare in discoteca o ai party per lei era come stare in famiglia, per lei la famiglia è una struttura che costruisce progressivamente. Come per il pubblico e i fan, essere connessa con loro dal vivo è una relazione molto importante. Lei è stata separata a un certo punto dai genitori, per questo cerca costantemente di ricostruire qualcosa che sente di non aver avuto da bambina.
Nel film c’è un elemento “gender”, in quanto l’androginia di Grace Jones la fa sembrare a tratti molto maschile e in altri molto femminile e sembra identificarsi con alcuni membri della famiglia, sia maschi che femmine. Che ne pensa?
Grace è l’eccezione che conferma la regola: siamo tutti molto più universali di quello che ammettiamo, siamo in grado di recitare con diverse calibrazioni. L’identità è una costruzione e Grace è in grado di occupare l’infinita gamma di variazioni dell’essere. La discussione sull’identità trasversale è interessante, mostra come siamo limitati nell’essere maschi o femmine, sono costruzioni limitative a causa della cultura e del marketing. Oggi il genere ha un’importanza speciale.
La comunità gay adora da sempre Grace Jones…
Sì, è un’icona gay perché gli omosessuali sono stati i primi a scoprire e ad amarla, a vedere la sua forza. Una volta le chiesi che cosa di lei spaventasse i maschi eterosessuali. Lei mi rispose che la sua androginia mascolina produce il loro lato femminile che li spaventa.
Le è mai venuta la tentazione di interromperla e domandare qualche sua curiosità?
Sì, continuamente, ma non volevo che il pubblico percepisse la mia presenza. Nella scena della camera d’albergo a Parigi avevo una conversazione con lei sulla sua performance. Mi piacciono i documentari tradizionali alla Fred Wiseman ma preferivo catturare quello che avveniva al momento.
Grace Jones è intervenuta chiedendole di tagliare qualcosa di imbarazzante per lei?
No, ha fatto una scelta molto radicale e coraggiosa. Non ha mai cercato di alterare o mediare la sua immagine né di avere un controllo creativo. È stato per lei un atto radicale, non si era mai mostrata senza trucco. È troppo sofisticata per chiedere di togliere un’immagine che non le piaceva. Io, al contrario, volevo che sembrasse sempre bella e folgorante. Volevo cogliere il potere e il mistero di una bella persona.
Le vere maschere nel film sono rappresentate da fantastici cappelli e dai costumi di Eiko Ishioka…
I cappelli sono stati realizzati da Philip Treacy, un modista di Londra. Sono tutti cappelli suoi, alcuni scovati nei suoi archivi. Le maschere sono invece di Eiko Ishioka. Philip mi ha aiutato nel creare lo stile delle performances, ho avuto la possibilità di ottenere molte combinazioni da questo punto di vista.
Nel film gli anni ’80 restano un po’ nell’ombra. Grace Jones le ha parlato delle frequentazioni dei personaggi gay di quell’epoca come Keith Haring ed Andy Warhol?
Era molto interessata da un punto di vista visivo all’opera di Haring e Warhol. I rapporti con questi artisti erano integrate nella sua sensibilità e riflettono questa sensibilità. Più che una pop-star Grace Jones è una performer artist.
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