CANNES – Malesseri, fughe, spettatori a disagio: la proiezione ufficiale del geniale e disturbante horror The House That Jack Built del maestro danese Lars Von Trier con un fenomenale Matt Dillon si è conclusa con un lungo applauso ma ha choccato il pubblico per altro avvisato dalla dicitura ‘scene violente’ sul luminiscente biglietto d’invito. Alla Montée des Marches, lungo i 24 magici gradini che portano nella magnifica Salle Lumière, Lars è apparso affaticato, con capello e barba lunghi, accompagnato dagli attori del film ma non da Uma Thurman, grande assente per ora non giustificata: “Ho perso sette anni!” ha dichiarato Lars a un commentatore locale riferendosi alla cacciata dal festival come ‘persona non grata’ del 2011 per alcune battutacce su Hitler.
Il grande provocatore danese ha sconvolto la Croisette col suo serial killer affetto da disturbi ossessivo-compulsivi, l’ingegnere Jack (Matt Dillon quasi posseduto) che negli anni Settanta realizza una sessantina di omicidi firmati Mr. Sophistication e concepiti come opere d’arte nello stile gore di Ana Mendieta, l’artista cubana che in quel periodo realizzava performances in cui si auto-seppelliva nella terra.
Diviso in cinque capitoli e un epilogo, descrive ‘cinque incidenti’, ossia altrettanti omicidi di Jack ai danni di donne incontrate per caso tranne una (Sophie Grabol), la moglie che gli ha dato due figlioletti a cui fa fare una fine, neanche a dirlo, diabolicamente atroce. La prima vittima è una signorotta borghese interpretata da Uma Thurman, rimasta a piedi con pneumatico bucato e cric (si dice ‘Jack’ in inglese) non funzionante: talmente odiosa e prepotente da scatenare il primo istinto omicida nel protagonista.
Ma The House That Jack Built non è un convenzionale prodotto splatter grandguignolesco quanto piuttosto una riflessione queer nel senso di ‘eccentrico’ sulla forma-cinema intesa come ‘arte immorale’: quali sono i limiti etici della rappresentazione? Perché amiamo ammirare immagini crudelissime e violente? Quali sono le responsabilità del regista e dello spettatore? Riflessione profonda sulla natura del male e sulle bestialità celate nel contesto sociale, raggiunge momenti insostenibili (mutilazione di seni, vilipendio di cadavere infantile, il prefinale satanico con letterale discesa all’Inferno), ma risulta antitarantiniano nell’anima: non si esalta il piacere nell’ammirare la violenza ma il sentirsi a disagio per il semplice fatto di tenere aperti gli occhi. È un complesso film d’autore citazionista e digressionista come Nymphomaniac cioè ha inserti apparentemente incongrui con immagini d’archivio corredate da analisi storiche, filosofiche e artistiche: altissimo il momento in cui si descrive l’albero amato da Goethe al centro del campo di concentramento di Buchenwald. Altro che Lars nazista!
Per una volta in Von Trier non sono le donne i personaggi forti del film ma, oltre a Jack, spicca un bravissimo Bruno Ganz nel ruolo di Verge/Virgilio, una sorta di inconscio e alter ego di Jack, con cui dialoga compulsivamente, coscienza critica e specchio deformante, in grado di rendere umana e terribilmente coinvolgente la psicopatia di Jack, affetto da disturbi ossessivo-compulsivi tra cui una mania per la pulizia assoluta. The House That Jack Built è uno strano film sul senso di colpa, il disagio psichico incomunicabile, l’indecifrabilità del malvagio. È gelido e privo di compromessi, sadico, perverso, terribilmente affascinante.
Magnifica l’immagine che rappresenta una sorta di traghetto verso l’Aldilà ed evoca i dipinti La Zattera della Medusa di Géricault e la Barca di Dante di Delacroix, una distesa di meravigliosi maschi nudi alla deriva che simboleggia il naufragio verso l’abisso.
Applausi a pioggia in proiezione stampa.
Uscirà a novembre per Videa Distribuzione. Lasciate ogni speranza voi che lo vedrete…
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