Sono bastate due frasi, bellissime, a dare un senso profondo alla bella esibizione di Sir Elton John: “Non pensavo di diventare papà” e quella sull’approccio cristiano nella beneficenza in Africa, soprattutto contro l’Aids. E così, quelle infime parolacce da destra (Gasparri ha parlato di “schifo umano” riguardo a Elton, Adinolfi ha detto che andavano prese contromisure contro la libertà di parola di Elton John) spariscono velocemente come la celebre Fiumi di Parole, applaudita in Sala Stampa nella carrellata dei vincitori a inizio serata.
È lui, il Wonderful Sir, l’unico vero evento del 66esimo Festival di Sanremo, campione di bravura e classe, ma, ahimé, quello che si temeva alle 20 in Sala Stampa, quando Elton è arrivato scortato dalle guardie del corpo, si è rivelato vero: David Furnish non c’è, non è in prima fila, non ha accompagnato il marito. Ipotizziamo che sia rimasto nella casa di Mont Boron a Nizza, viste tutte le polemiche. Così, ecco al pianoforte le emozionanti Your Song, Sorry seems to be the hardest word e il nuovo singolo Blue Wonderful (il video con la Tigre e il Dragone casalingo, ovvero una coppia etero che balla e vola intorno a casa è bellissimo). Alla fine, dunque, la chiacchierata dell’Abbronzatissimo Carlo Conti – impeccabile: un Pippo Baudo filogay per tutti – con Elton è diventata semplicemente un ripercorrere la sua carriera, ricordare anche la fortuna, evocare a sorpresa l’approccio cristiano: sì, Elton John è il nostro Papa Frocesco. Poi c’è Laura, per cui siamo tutti Simili: non siamo certo in solitudine.
Intorno, prima e dopo, un grande classico: quell’amatriciana nazional-popolare che da sempre rende Sanremo irresistibile, imperdibile, rito collettivo da reunion casalinga e gossip sfrenato (pure Nicola Lagioia, premio Strega, ne parla su Repubblica).
Greta Garko, come è stato soprannominato Gabriel (persino “l’imitazione della Raffaele”, a un certo punto), ci è sembrato robotico, pettinato da Edward Mani di Forbice, a disagio. Però ha parlato. Anche se il gobbo gli sfuggiva. Ma è come sparare sulla Croce Rossa: e il suo bersaglio è diventato l’hobby più spassoso, soprattutto sui social. Comunque un merito ce l’ha: aver indossato un paio di occhiali rainbow, in una serata scorrevole ma senza grandi guizzi che è diventata inevitabilmente politica grazie a cinque artisti che hanno aderito all’iniziativa lanciata da Luca Finotti, Andrea Pinna e Gay.it con la campagna social #SanremoArcobaleno, molto seguita nella nostra diretta Storify: i nastri coi sei colori arcobaleno (il rosa non c’è ma solo il viola). Sono Noemi, Arisa, i Bluvertigo, Ruggeri e Irene Fornaciari i magnifici cinque che hanno mostrato la nostra bandiera, sull’asta del microfono e addirittura nel taschino.
Un messaggio che è arrivato in tutte le case italiane, fondamentale per il dibattito in corso sulle Unioni Civili, e ha messo a tacere lo Scudo Frociato, ovvero quel che resta della DC in odore di omosessualità ma contro il decreto di legge Cirinnà.
Il resto è Sanremo allo stato pop in un’astronave blu – le belle scenografie futuriste e minimal di Riccardo Bocchini – ovvero Virginia Raffaele che fa ridere trasformandosi dopo quattro ore di trucco in Sabrina Ferilli e ci regala la battuta più bella della serata: “E basta co ‘sto Elton John, dicono che è uno spot per gli omosessuali… Quando ce stanno i Pooh, che è? ‘Na marchetta per l’INPS?”. La bella Madalina Ghenea è la Tigre del Bengala, scende le scale in animalier ruggente e fa bella figura (è rumena, per la gioia delle badanti di tutt’Italia), Aldo Giovanni e Giacomo rifanno una G.A.G. – il loro acronimo – ruminata e mesolitica.
Dimenticavamo, le canzoni? Così così. Ci sono piaciuti gli Stadio, solida rock ballad, gran bel passaggio di consegne da padre a figlia; Noemi sempre dalla nostra parte (le perdoniamo di aver lasciato nella borsa Va’ dove ti porta il cuore della Tamaro, ma la canzone è piuttosto bella), Arisa (sette per Guardando il cielo; l’abito, però, era repellente) e Ruggeri (grande Rouge, buon prog-rock che ha fatto ballare i giornalisti in Sala Stampa). Il resto è tutto insufficiente: Fragola non va giù manco con la panna, spalmata Infinite Volte; “Ti ritroverò per sempre fra le frasi senza tempo” è un Mezzo Respiro (Dear Jack) che diventa una schitarrata rock con cantante nuovo, ma non resta impressa; Morgan uccide Semplicemente i Bluvertigo perché afono tra lo sbigottimento degli addetti ai lavori; Caccamo e Iurato non si capiscono e gli henné violacei di lei gridano: “Via da qui!”; Rocco Hunt ha esaltato i più giovani ma ci è sembrato un rap un po’ facile (molto meglio il grande Maître Gims, per la gioia di Giovanardi: è etero e ha quattro figli).
Ma la sorpresa più grande arriva dopo il Festival, quando, a un certo punto, un millantatore, da un profilo falso del Cardinal Ravasi scrive esaltando la canzone di Noemi. Decidiamo di diventare suo follower. Non ci crederete mai ma è il vero Cardinal Ravasi. Perché? Perché Sanremo è Sanremo, e la messa cantata è arrivata persino alle Alte Sfere.
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