FAMOSI, A TUTTI I COSTI

La smania della notorietà colpisce Andrea, bel napoletano sbarcato a Roma. Che fa coming out in Tv per raggiungerla. E' "Il Re del Mondo" di Cotroneo, in libreria. L'intervista.

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Dai media e dai giornali, studiosi e intellettuali di ogni genere ripetono spesso la stessa frase: «La gioventù di oggi è senza ideali!». Ma lo dicevano già vent’anni fa e nel frattempo i giovani di allora sono diventati adulti e oggi fanno funzionare il mondo in cui viviamo. Dunque, si rilassi chi è preoccupato per il poco impegno ideologico dei ventenni. Forse è una fase passeggera di tutti quella di pensare a divertirsi, frequentare discoteche e farsi uno spinello.
Desta invece qualche pensiero il livello di vanità esagerata dei ragazzi di oggi. Sembra quasi che gli anni ottanta non siano mai tramontati. La voglia di piacere, di farcela, di arrivare, di essere famosi, straborda dai rotocalchi e dalle trasmissioni tv. Non è un caso che alle selezioni per veline televisive si presentino in migliaia, e che ancora per molti il grande sogno è quello di prendere parte al Grande Fratello di cui quasi nessuno si ricorda più le facce dei partecipanti alle passate edizioni; mentre molti cascano nella trappola di nostra signora Maria De Filippi televisiva che illude un gruppo di poveri ragazzi di talento che “Saranno famosi!”
Il protagonista della storia che Ivan Cotroneo ha scelto di narrare nel suo primo romanzo “Il re del mondo” (Bompiani, 212 p., 14 euro) non è molto diverso da questi ventenni spinti da sogni di gloria che popolano studi televisivi e sale prova. Andrea – 26 anni, napoletano e un gran bel fisico – è uno studente universitario di Lettere a Roma ma non studia molto. Nella capitale ha invece seguito corsi su corsi di recitazione, dizione, danza, espressione corporea e ha fatto un sacco di provini con pochi risultati. Lavoricchia senza grande entusiasmo mentre dedica molto impegno e determinazione all’allenamento in palestra per mantenere un fisico perfetto.

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Il giovane sembra non porsi troppi problemi sulla sua sessualità. Va a letto indifferentemente con uomini e donne, ricercando soprattutto il piacere. In realtà è innamorato di se stesso, si cura molto, si veste bene, si osserva costantemente allo specchio, controlla i suoi addominali, il suo aspetto generale. Attenzioni che diventano delle vere e proprie ossessioni. Una buona parte del racconto è dedicata alla ripetizione di gesti e di pensieri nella mente del protagonista che spesso fantastica di essere un personaggio di successo, ammirato, invidiato e voluto da tutti. E molti sono i provini ai quali Andrea si sottopone che si concludono sempre con un “Ti faremo sapere”. Fino a quando incontra Martina. Una bella trentenne che ama il sesso e i bei vestiti e che gli propone di partecipare alla trasmissione televisiva per la quale lavora come autrice dove lui dovrà fare la parte di un bel ragazzo che messo alle strette dalla propria fidanzata confessa in diretta di essere omosessuale. Andrea accetta, spinto dall’abbaglio della notorietà. Che arriverà, ma in maniera completamente diversa da come si immaginava.
La narrazione è fluida, lo stile scorrevole, il ritmo rapido e incalzante. Insomma, un romanzo efficace. Ivan Cotroneo mette in scena gli ideali dei giovani, o meglio, di certi giovani, che si preoccupano più del successo di Kylie Minogue e di Madonna che delle conseguenze di una guerra in medio oriente. E ci invita a considerare il potere della televisione e del mondo dello spettacolo, così finto e vuoto, che veicola costantemente una realtà falsata e distorta alla quale abboccano soprattutto gli spettatori più deboli e impreparati, di solito giovani e giovanissimi.
Lo scrittore non fa del moralismo, né suggerisce soluzioni. Si limita a rappresentare una storia assurda ma verosimile, stimolando riflessioni che possono servire, semmai ce ne fosse bisogno, a metterci in guardia sulle pericolose armi della comunicazione.
Abbiamo rivolto qualche domanda a Ivan Cotroneo
Dicci un po’ di te. Sei traduttore di Michael Cunningham e di Hanif Kureishi, scrivi sceneggiature per il cinema e testi per la televisione. Ora ti dedichi anche alla narrativa. È nata prima la traduzione, la scrittura creativa o la sceneggiatura?

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Stando alla cronologia, almeno come attività professionale è venuta prima la sceneggiatura. Nel 1990 ho lasciato Napoli, dove avevo vissuto fino ad allora e dove studiavo Legge, e mi sono trasferito a Roma per seguire i corsi del Centro Sperimentale di Cinematografia. Poi è arrivata la traduzione, a cui tengo moltissimo, e adesso la pubblicazione del romanzo. Però io ho sempre scritto per me, per lo più racconti, che poi, salvo sporadici casi, non ho mai voluto pubblicare. Continuando a lavorare con la scrittura in tutte queste forme (come sceneggiatore, traduttore, autore televisivo, narratore, paroliere per canzoni) ho capito che quello che mi piace davvero è giocare con le parole. Penso che bisognerebbe avere più rispetto per le parole, anche nei nostri dialoghi quotidiani. Trovo insopportabile questa abitudine diffusa e generalizzata alla smentita. Ogni parola dovrebbe essere in qualche modo una parola d’onore.
Andrea, il protagonista del romanzo ha qualcosa di autobiografico o ti sei ispirato alle persone che ti è capitato di incontrare nel mondo dello spettacolo?
Soprattutto lavorando come autore televisivo, ma anche come sceneggiatore, ho conosciuto moltissimi ragazzi e ragazze che vogliono fare (o fanno) gli attori. In particolar modo, gli studi televisivi che ho frequentato erano sempre affollati di figuranti e comparse. Mi affascinavano, li vedevo tutti eleganti, sbarbati, pettinati (spesso con cambiamenti repentini di taglio e di colore) anche alle nove del mattino, quando io mi trascinavo nella stanzetta degli autori in condizioni pietose, semiaddormentato e ghiacciato da quaranta minuti in motorino. Ho cominciato a pensare che questa determinazione e questo attaccamento così forte all’immagine fossero speciali, e che avessero in sé qualcosa di terribile e insieme di poetico. Così è nata l’idea del romanzo, e ho cominciato a raccogliere materiale per il mio protagonista. Molti degli episodi raccontati nel libro sono rielaborazioni di situazioni realmente accadute. Una per tutte: la rissa nella piazzetta di un talk show televisivo per conquistare il posto più vicino alla telecamera. C’è poco di direttamente autobiografico nel romanzo, a parte le scelte musicali del protagonista, che ha una predilezione per l’elettro-pop come me. Però c’è una paura che sento fortemente e che mi riguarda: quella di vivere in un mondo che fa di tutto per spingerci a non pensare.
La fissazione di Andrea per la moda, di cui sciorina i nomi di tutti gli stilisti, la sua musica di riferimento: Janet Jackson, Breatney Spears, Madonna, Kylie Minogue, l’ossessione sulla sua forma fisica: ci sarebbero tutti gli elementi per pensare che sia omosessuale, anche se va a letto con Martina. Pensi che oggi si possa parlare di un’attitudine gay, al di là del semplice atto sessuale consumato con una donna o con un uomo?
Mi sembra che questo gran parlare che si fa di un’attitudine gay, per indicare l’attenzione all’immagine, alla moda, alla cura del corpo (come succede per David Beckam o Johnny Depp) sia solo un ulteriore modo per schematizzare e mettere un’etichetta. Ora gli americani hanno coniato un’espressione che mi sembra terrificante, per indicare questo atteggiamento: ‘just gay enough’. Non capisco cosa voglia dire, come se ci fosse una misura socialmente accettabile nell’essere gay. Mi pare una definizione razzista e, di fondo, intollerante. Ovviamente qualsiasi liberalizzazione mi pare positiva, è pur sempre l’abbattimento di una barriera. Mi piacerebbe però che la società registrasse queste belle aperture al cross-gender senza metterci un nome su per neutralizzarle.
E pensi che oggi si possa parlare di una letteratura omosessuale che non faccia necessariamente riferimento a storie e al mondo gay?
Certo che sì. Penso molto semplicemente che la letteratura sia la letteratura, e che un buon libro sia un buon libro. La definizione di ‘gay literature’ mi pare venga comoda nelle librerie per cercare libri a tematica gay, ma non penso serva ad altro. Michael Cunningham scrive libri da grande autore qual è, e i suoi romanzi appartengono alla Letteratura, prima che alla letteratura gay. Se si è grandi scrittori si può scrivere di tutto, e trovo assurdo pensare che un autore gay possa o debba scrivere solo storie di argomento gay. Un autore, gay o eterosessuale o transgender, scrive quello che gli pare, e se è bravo ci riesce.
Quello che racconti è tutto vero: una persona che conosco è andata a una trasmissione e per 300 euro le hanno fatto raccontare una storia di tradimenti neanche tanto originale ripresa da un fatto di cronaca americana accaduto qualche tempo prima. La gente sa che le storie sono false, eppure queste trasmissioni continuano ad essere seguite. Perché secondo te?
Non so perché. Mi pare che ci sia una tendenza diffusa allo stimolo delle pulsioni sadiche nello spettatore, altrimenti non si spiegherebbe tanta televisione che gioca spietatamente sul dolore. Ormai siamo dalle parti di Ballard. Personalmente, mi pare che il vero problema non stia nella verità o nella verosimiglianza delle storie che nei cosiddetti reality show ci vengono spacciate per vere. L’elemento più pericoloso sta per me nel fatto che queste trasmissioni creano una abitudine alla mancanza di pudore, rendono plausibile, accettabile e accettato il fatto che ci sia qualcuno che va davanti a una telecamera a parlare dei suoi affetti, dei suoi amori, delle sue scelte sessuali. Io credo che questa non sia materia da audience, credo che siano scelte che definiscono una persona, e andrebbero trattate con maggiore delicatezza e rispetto, anche verbale.
Perché le televisioni generaliste in Italia sono di così basso livello? Colpa degli autori, dell’Auditel o manovra per spingere il pubblico alle tv a pagamento?
La televisione è un mezzo di per sé neutro. Tutto dipende dall’uso che se ne fa. Mi pare che in Italia la ricerca del pubblico e la dittatura dell’Auditel abbiano portato a una rinuncia totale alla sperimentazione e al rischio. Il gusto del pubblico può essere (e in effetti è) molto più sottile e sensibile di quanto spesso non pensino i produttori televisivi. Basta vedere il successo di programmi televisivi nobili (di recente, la replica del ‘Vajont’ di Paolini su Raitre), successo che è sorprendente solo per chi pensa che il pubblico televisivo non sia in grado di scegliere o di apprezzare le novità.
Lunedì 17 novembre Ivan Cotroneo presenterà il suo libro alla libreria FNAC di Milano.
Ivan Cotroneo
Il re del mondo
Bompiani, 2003, 212 p., 14 euro

di Alberto Bartolomeo

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