FUGA D’AMORE

Sami Saleh, palestinese e omosessuale, è scappato da Gaza con il suo ragazzo, cercando rifugio in Italia. Da dove li hanno mandati via. Ora lui è qui da solo. Lo abbiamo intervistato.

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3 min. di lettura

MILANO ­ La storia di Sami Saleh è una tragedia che non smette di cessare per gli sventurati omosessuali palestinesi. Sami ha 29 anni, nativo di Gaza. Ha sopportato violenze inaudite da parte della famiglia per via della sua omosessualità finchè è riuscito a fuggire con il suo ragazzo. Bloccati a Malpensa nel settembre del 2001, sono stati espulsi dopo molti mesi. In viaggio verso la Svezia sono stati fermati dalla polizia tedesca, e solo per Sami è arrivato l’ordine di rispedirlo nel nostro paese. Dalla Germania la sua avvocatessa allerta l’Associazione culturale Punto Rosso di Milano, chiedendo di assisterlo; cosa che fanno con grande generosità. Anche il Pink di Verona, il GLO, Rifondazione stanno aiutando Sami e il Partito Radicale ha preannunciato una interrogazione da presentare alla Commissione Europea. La sua vicenda, a breve, sarà nuovamente al vaglio della magistratura di Varese che dovrà decidere se potrà restare in Italia o tornare a Gaza. Per questo ora occorre la mobilitazione di tutta la comunità omosessuale, e quella dei media. Sami Saleh non può rimanere un apolide ed è giusto che si riunisca con il suo compagno. Quando lo incontriamo notiamo i suoi occhi colmi di disperazione, lo sguardo di chi ha visto la sofferenza sul proprio corpo.

Sami, raccontaci la tua storia.

Vengo da una famiglia religiosa molto conosciuta a Gaza. Conosco il mio ragazzo fin da quando eravamo fanciulli, vivevamo in simbiosi. Per vederci un amico ci aveva messo a disposizione la sua casa. Eravamo inseparabili e nessuno sembrava occuparsi di noi. Nella cultura araba gli uomini hanno una certa tenerezza tra maschi, ma nel sociale esprimono una crudele omofobia.

Chi vi ha ostacolato quando si è saputo del vostro rapporto?

Le famiglie. Mio fratello è un religioso e studia per diventare un imam. E’ stato lui che per ben due volte ha tentato di eliminarmi fisicamente.

Sei mai stato preso dalla polizia palestinese?

No. I nostri incontri avvenivano in casa, ma sapevamo che se fossimo stati scoperti ci avrebbero condannati a una dura pena.

Cosa è successo e chi vi ha scoperti?

L’amico che ci proteggeva era andato ad acquistare delle bibite. Forse qualcuno ci teneva d’occhio. Ad un certo punto sono entrate nella stanza tre sconosciuti: siamo stati prima picchiati; poi a turno ci hanno violentati e seviziati con mozziconi di sigarette accese e altri oggetti. Poi, ci hanno buttati in strada nudi. A Gaza ci si conosce tutti e quel gesto significava per noi la fine.

Come hanno reagito le famiglie?

Mio fratello è arrivato impugnando una pistola, mentre la gente ci insultava buttando contro di noi ogni genere di oggetti. E’ stata la pietà di un signore che ci ha salvati portandoci a casa sua.

Cosa è successo poi?

Sono stato ricondotto a casa, dove sono rimasto legato mani e piedi per tre mesi. Una volta mio fratello mi ha versato della benzina tentando di darmi fuoco. E’ stata mia madre a salvarmi. Anche il mio compagno è stato segregato e maltrattato dalla famiglia.

Come siete riusciti a fuggire da quell’inferno?

Avevamo la possibilità di uscire di casa per due ore, e a quel punto siamo fuggiti verso la Giordania. Dopo 50 giorni abbiamo trovato una persona disposta ad aiutarci facendoci arrivare a Milano. A Malpensa siamo stati bloccati e portati in un centro di accoglienza di Varese.

Avete subìto pressioni da parte di altri rifugiati o di persone del Centro?

No, nessuno sapeva che eravamo in Italia a causa della nostra omosessualità.

Cosa è avvenuto dopo?

Passati tre mesi siamo andati a Roma, dove una commissione doveva decidere se darci lo status di rifugiati. Chiedevano delle prove sulla nostra omosessualità e non son bastate le nostre parole. Alla fine ci hanno chiesto di lasciare l’Italia.

Dove avete deciso di andare?

In Svezia, ma siamo stati bloccati in Germania a Neumünster. Nel centro di accoglienza di Lubek siamo stati derisi e attaccati dagli altri profughi e abbiamo chiesto di essere allontanati dal posto. Hin, una organizzazione omosessuale, ci ha aiutati moltissimo. La polizia intanto verificava le nostre dichiarazioni. Il 3 aprile, giorno del mio compleanno, mi hanno detto che dovevo tornare in Italia, da solo. Ho tentato di bloccarli tagliandomi i polsi. Mi hanno curato e spedito in prigione.

Ti concedevano di vedere il tuo ragazzo?

No, mi facevano visita solo le organizzazioni gay e il mio avvocato. Avevano deciso di lasciarmi dentro fino all’arrivo della documentazione dall’Italia. Il giorno della mia partenza, il mio ragazzo doveva operarsi per problemi cardiaci. Ho chiesto di restare il tempo necessario per vederlo e assicurarmi sulla sua salute, ma non me lo hanno concesso. Aiutatemi a vivere con il mio amore, a vivere serenamente accanto a lui.

di Mario Cirrito

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