Perseguitato in Africa perché gay, il giudice italiano gli riconosce lo status di rifugiato

"Nel mio Paese l'omosessualità non è accettata e mi volevano uccidere".

zambia
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Mia madre ha accettato il fatto che sono gay. Ma mi ha detto che non posso ritornare perché continuano a cercarmi“: queste le parole che un giovane africano ha rivolto alla Commissione del Ministero dell’interno per il riconoscimento della protezione internazionale ma che non sono sta sufficienti. Al giovane migrante accolto in Versilia infatti, come riferisce il Tirreno di oggi, era stato inizialmente lo status di rifugiato. Una decisione che la prima sezione civile del Tribunale di Firenze ha ribaltato il 3 marzo scorso.

Il ragazzo, ascoltato dal giudice Paolo Masetti – come racconta l’avvocato Tiziana Pedonese – si è visto riconoscere lo status non potendo fare rientro in Africa. Un continente nel quale – nel 2011 quando il ragazzo è fuggito – l’omosessualità era illegale in ben 38 Stati. I membri della comunità LGBT, nella maggior parte dei casi, sono esposti a condanne che arrivano anche a decine di anni di carcere, se non l’ergastolo addirittura, con pene che prevedono perfino la pena di morte.

Quando lo straniero viene ascoltato in commissione ministeriale racconta di aver lasciato il proprio Paese perché “lì, l’omosessualità non è accettata e mi volevano uccidere“. La commissione verifica: nello Stato da cui proviene il richiedente lo status di rifugiato non è prevista la pena di morte per gli omosessuali. E, dunque, la domanda non può essere accolta.

Ma in Africa spesso non valgono solo le leggi scritte. “Avevo un relazione con un ragazzo da cinque mesi. Poi qualcuno ci ha scoperto e ha denunciato tutto al capo villaggio. Un mio amico mi ha avvisato che il capo del villaggio stava mandando delle persone ed io sono uscito senza dire niente alla mia famiglia e sono scappato (…) della gente era venuta a casa a cercarmi e avevano rotto i vetri“.

Il ragazzo cambia Stato, ma resta in Africa. Pensava di essere al sicuro dov’era arrivato: “Avevo trovato degli amici del mio Paese ed abbiamo lavorato insieme a vendere cibo per strada ma un giorno un amico che vendeva una bibita la portò da noi. I miei amici l’hanno bevuta e due persone sono morte“. Deve andare via anche da lì.

Lavora un anno come muratore a Tripoli, ma la guerriglia spezza un sogno di vita ritrovata. La polizia gli sequestra 1.200 dinari: “I soldati ci hanno fatto imbarcare, siamo stati in viaggio cinque giorni in mare prima di arrivare in Italia. Sono sbarcato con gli altri in Sicilia: in tasca avevo solo due dinari“.

Il racconto del ricorrente è apparso, nel complesso, coerente“, si legge nella sentenza che accoglie il ricorso presentato dall’avvocato Pedonese, tra i più esperti in provincia di Lucca di questioni relative agli stranieri e membro dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. La quale non risparmia la stoccata alla commissioni ministeriale: “La leggerezza della conclusione lascia perplessi ove si consideri che, una semplice ricerca in Rete, avrebbe confermato quanto ricordato al primo punto ovvero una repressione silenziosa degli omosessuali con ciò conferendo alla ricostruzione fornita una valenza, se non probatoria piena, almeno sufficiente proprio perché collegata a fatti notori“.

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