In Bangladesh è in atto una repressione col sangue di tutto ciò che esula dall’Islam più integralista: vari rappresentanti della secolarizzazione del sapere e dell’ateismo nel Paese sono stati barbaramente uccisi a colpi di machete nei giorni scorsi, e tra questi anche due militanti LGBTI attivi a Dacca, la capitale.
Xulhaz Mannan e la seconda vittima erano entrambi due membri dello staff di Roopbaan (Xulhaz lavorava anche per l’ambasciata statunitense), l’unico magazine a tematica gay nello Stato: un corrispondente della pubblicazione ha rivelato che non avevano mai ricevuto sanzioni o richiami dal governo, e che quindi nonostante tenessero le loro identità nascoste non pensavano di rischiare la vita. Tanay Mojumdar, un fotografo della rivista che conosceva entrambe le vittime, le ricorda con tristezza e rabbia: “Avevano creato Roopbaan con l’intento di diffondere la tolleranza nel Paese. Ora è tutto finito. Loro pensavano che se tutti gli omosessuali in Bangladesh fossero venuti allo scoperto, la cosa sarebbe diventata di primaria importanza e il governo avrebbe dovuto accettarci”. Nello Stato infatti l’omosessualità tecnicamente è illegale, e rimane un tasto dolente della politica e del dibattito odierno.
“Erano entrambi molto gentili, non violenti e consapevoli del fatto che essere omosessuali dichiarati nel loro lavoro costituiva un pericolo. Fino a un anno fa però, l’unica paura di fare coming out era il rifiuto della famiglia e il dover ricominciare una vita in qualche altra parte del Bangladesh. Ora, la paura per gli omosessuali è la vita stessa“, ribadisce il fotografo. I due erano anche gli organizzatori del “Rainbow Rally“, una grande parata per la comunità LGBTI che si teneva ogni 14 aprile, data del loro Capodanno, dal 2014.
Gli omicidi si inseriscono in una lunga lista macchiata del sangue di attivisti, atei e personaggi culturali dello Stato: solo sabato scorso un professore universitario era stato assassinato nello stesso modo. Dall’anno scorso sono state uccise ben sette persone: quattro blogger atei, due turisti (un italiano e un giapponese) e uno studente di legge, tutti colpevoli, a quanto pare, di non assecondare i dettami più ferrei dello Stato Islamico.
E infatti è proprio l’ISIS ad aver rivendicato le uccisioni: il governo bangladese di tutta risposta assicura che nello Stato non ci sono presenze estremiste. Secondo i testimoni però, i sei uomini che avrebbero violato l’appartamento di Xulhaz avrebbero gridato “Allah Akbar” prima di compiere gli spaventosi delitti.
“Sono devastata dal brutale omidicio di Xulhaz Mannan e del secondo giovane ragazzo”, afferma Marcia Bernicat, l’ambasciatore degli Stati Uniti nel Paese. “Aborriamo questi atti di violenza insensati e chiediamo ad alta voce al governo di trovare i criminali dietro questi delitti”. Ci auguriamo anche noi che questo fiume di sangue innocente trovi presto la sua fine.
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