A Seul, in Corea del Sud, un’inattesa impennata di nuovi casi da Covid-19 ha costretto il Governo ad un dietrofront sulle riaperture post isolamento. Un nuovo focolaio è infatti esploso tra i locali notturni della capitale, facendo temere l’arrivo di una possibile seconda ondata. Colpa di un uomo positivo al Coronavirus che in poche ore ha presenziato in diverse discoteche e pub della zona, venendo ipoteticamente a contatto con oltre 7000 persone. 29 dei 35 nuovi casi sono arrivati da Itaewon, quartiere gay della capitale, come annunciato dai funzionari dei Centri coreani per il controllo e la prevenzione delle malattie (KCDC), portando a 86 il numero totale di casi relativi al primo weekend di maggio. Ed è qui che ha preso vita una caccia all’untore dai risvolti discriminatori e chiaramente omofobi, in un Paese che già di suo è tutt’altro che friendly.
Il Governo ha così rinviato di almeno una settimana la riapertura delle scuole, come riportato dal The Guardian, con Park Baeg-beom, vice ministro dell’istruzione, che ha definito il tutto “inevitabile”, pur di garantire la sicurezza degli studenti. Ma dopo che Kookmin Ilbo, media locale legato ad una chiesa evangelica, ha parlato di nuovi contagi in locali LGBT, molti altri media sudcoreani ne hanno seguito l’esempio, rivelando non solo l’identità della clientela ma anche le loro età e i loro luoghi di lavoro. Un pericolosissimo outing di massa. Quando un altro uomo con il Covid-19 è stato trovato in una sauna gay di Gangnam, articoli omofobi si sono moltiplicati sia sui giornali che sul web. La comunità gay di Seul, inevitabilmente, si è spaventata.
“Ammetto che sia stato un enorme errore visitare il quartiere gay quando la pandemia non era completamente finita”, ha rivelato Lee Youngwu al The Guardian. “Ma quel quartiere è il solo dove posso essere me stesso e uscire con altri uomini come me. Durante la settimana, devo fingere che mi piacciano le donne“. “La mia banca mi ha detto che hanno trasmesso le informazioni di pagamento relative a quel quartiere alle autorità. Mi sento in trappola. La mia azienda scoprirà molto probabilmente che sono gay. Perderò il lavoro e subirò un’umiliazione pubblica. Sento che tutta la mia vita sta per crollare. Non avevo mai pensato al suicidio prima, ma adesso ci penso“.
Min Jaeyoung, 27 anni, ha raccontato il terrore vissuto prima di cedere al tampone, essendo stato nel quartiere gay: “Mi ci è voluta un’intera settimana per trovare il coraggio di sottopormi al test. Ho dovuto esercitarmi nel dire “oh, certo che non sono gay”, e mi sono persino registrato diverse volte per sembrare naturale. Ho anche messo le foto di calciatori e cantanti hip-hop coreani sui miei social media per cercare di sembrare etero. Mi sono persino preparato a dover cercare un altro lavoro. A quanto pare, non ero positivo ma ho pianto quando ho ricevuto quel messaggio. E non perché fossi felice di non essere positivo, ma perché odio davvero essere un uomo gay in questo Paese . Sabato scorso il primo ministro, Chung Sye-kyun, ha esortato i coreani ad “astenersi dal criticare una determinata comunità in quanto non aiuterà gli sforzi per contenere la diffusione del coronavirus“. Yoon Tae-ho, funzionario del Ministero della Sanità, ha chiesto pubblicamente ai cittadini di astenersi “dal diffondere informazioni personali dei pazienti o voci infondate“. Il sindaco di Seul, Park Won, ha invece chiuso locali e bar, chiedendo a tutti i frequentatori di sottoporsi ai test, promettendo la protezione dei dati personali.
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