A riscontrare questo problema è stato uno studio realizzato dall’Università Carlo III di Madrid. Il social network più famoso al mondo permette agli inserzionisti di decidere come veicolare le informazioni decidendo una serie di parametri. Ma oltre al genere sessuale, età e paese, le aziende possono anche selezionare uno specifico orientamento sessuale, politico e addirittura l’etnia. Questo, in Paesi dove l’omosessualità non è tollerata, potrebbe creare un grave danno all’utente.
Facebook, attraverso i like ai post e i siti visitati fuori dal social, riesce a capire quali sono gli interessi di un particolare utente, e proponendogli in questo modo inserzioni che lo stesso potrebbe trovare interessanti. Ma se si parla di una squadra di calcio o di un hobby, è un conto. Tutt’altra faccenda quando si parla di etnia e orientamento sessuale (oltre a quello politico), che sono da considerare dei dati sensibili. Lo studio ha raccolto dei dati sorprendenti, che costringerà Facebook a correggere subito il problema.
A causa delle inserzioni su Facebook, 4 milioni di persone classificate come LGBT
Lo studio ha confermato che 4,2 milioni di persone, in tutto il mondo, sono state classificate come omosessuali (o appartenenti alla comunità LGBT) a causa delle inserzioni del social network. Gli sponsor però non possono vedere il nome dell’utente, quindi si può sapere l’orientamento sessuale del proprietario di quel profilo, la sua squadra di calcio preferita, i suoi interessi e la sua fazione politica, ma non i dati personali. Questa, però, non tranquillizza né il social né gli esperti sulla privacy.
Il mercato dei dati è articolato e pieno di falle. Una volta che c’è un dato su una persona – per quanto protetto – non si può sapere a chi riesce ad arrivare. Per questo motivo, la privacy ha forte rilevanze etiche.
Questo il pensiero di Rocco Panetta, uno degli avvocati più noti sul tema della privacy privacy e dirigente dell’Autorità garante italiana. E il suo avvertimento non è da prendere alla leggera. Difatti, il problema diventa davvero grave quando uno Stato anti-LGBT ricorre al social network pubblicando un’inserzione ingannevole ai profili LGBT, la quale prevede l’inserimento dei dati personali. Con qualche click, lo Stato (o chi per lui) saprà tutto di quell’utente. Non sarebbe un’ipotesi campata in aria, pensando a quanto accaduto in Cecenia.
La difesa (traballante) di Facebook
Il social ha tentato di difendere questa opportunità per i suoi sponsor, ma la risposta data fa acqua da tutte le parti. Difatti, spiegano, un utente potrebbe mettere un like a una pagina LGBT solo perché simpatizzante e friendly. Non per forza, dunque, deve essere gay. Inoltre, fa sapere che ha rimosso oltre 5.000 opzioni per targettizzare le inserzioni, in quanto avrebbe potuto portare a discriminazioni.
Nella pratica, però, dal punto di vista statistico un utente che mette il like a una pagina LGBT, la maggior parte delle volte è perché appartiene alla comunità. Anche se non è così al 100%, sarà comunque un’alta percentuale. Al momento, però, non c’è una legge precisa che regola il trattamento dei dati sui social, e fino a che le istituzioni europee (nel nostro caso) non si impegneranno sulla questione, le aziende continueranno a poter sfruttare i dati sensibili come preferiscono.
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