Il caso di Matthew Shepard: ecco perché la sua morte svegliò l’America omofoba

A Laramie, Wyoming, era un pomeriggio qualsiasi di ottobre. Faceva freddo, tuttavia era ancora possibile potersi concedere ancora una bella biciclettata in campagna.

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A Laramie, Wyoming, era un pomeriggio qualsiasi di ottobre. Faceva freddo, tuttavia era ancora possibile potersi concedere ancora una bella biciclettata in campagna: Aaron Kreifels deve aver pensato questo, quando prese la sua bici e uscì di casa. Non immaginò, tuttavia, di trovare al ciglio di una stradina secondaria, legato ad un recinto e in fin di vita, Matthew Shepard. La polizia, giunta poco dopo, lo descrisse come “così conciato da essere irriconoscibile, coperto di sangue ovunque, ad eccezione di dove erano scorse le lacrime”. Morì in ospedale tre giorni dopo, il 12 Ottobre 1998.

Le indagini non scavarono nemmeno troppo a fondo nella vicenda, poiché il cerchio si chiuse immediatamente attorno a Aaron McKinney e Russell Henderson, ventenni come Matthew. La sera prima del ritrovamento i clienti del Fireside Bar videro i tre allontanarsi e andar via. Gli inquirenti conclusero che i due avevano promesso uno strappo fino a casa al malcapitato e che, dopo aver scoperto che fosse gay per strada, lo massacrarono di botte, lo torturarono e lo lasciarono legato a quel recinto per tutta notte all’addiaccio. Il processo iniziò subito, non erano necessari ulteriori elementi per dubitare del loro coinvolgimento. Arrivarono alla sbarra anche le fidanzate, complici di aver favoreggiato i due assassini.

Fu così che iniziò uno dei processi più importanti per la storia recente dei diritti LGBT in America. La strategia difensiva si concentrò a dimostrare che non si trattasse di crimine d’odio ma di mera violenza. I difensori dipinsero l’accaduto come una rapina finita male a seguito delle avances di Matthew: una delle ragazze, Kristen Price, confermò l’intento dei due di rapinarlo dopo aver finto di essere anch’essi gay per adescarlo in macchina. McKinney e Henderson dunque lo massacrarono fino alla morte, infastiditi. Il tribunale ritenne ben poco plausibile il tentativo di rapina finito male, inconciliabile con la brutalità dell’accaduto; non convenne nemmeno con il tentativo di rappresentare i due vittime della cosiddetta “difesa da panico da gay”. La (umiliante) teoria difensiva anglosassone sostiene che i maschi eterosessuali possano diventare temporaneamente infermi a seguito di contatti con persone gay: una “colpevolizzazione della vittima” per mascherare la paura e l’odio a movente del possibile atto omofobico. Così momentaneamente da permettere di menare col calcio della pistola, torturare, legare e abbandonare un povero gay reo di essere capitato nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

Il caso divenne mediatico: l’attenzione dell’America era tutta racchiusa in quelle stanze di tribunale. Molte celebrità e politici condannarono l’evento e promisero maggior impegno contro la discriminazione. Ellen DeGeneres, Ted Kennedy e Al Gore sono solo alcuni dei nomi che chiesero al presidente Bill Clinton di intervenire a difesa dei diritti LGBT.  Purtroppo, non ci furono solo manifestazioni di cordoglio. Un caso così rilevante, in cui la sessualità della vittima ha giocato un ruolo importante non poté evitare di sollevare ben più infelici reazioni dalle frange più conservatrici. La Chiesa cattolica del Wyoming, ad esempio, si oppose alla richiesta della pena di morte per gli imputati, non per carità cristiana, bensì poiché la Bibbia prescrive chiaramente -a suo parere- di uccidere i gay. La Westboro Baptist Church, tristemente nota per la violenza verbale dei propri adepti, si rallegrò dell’accaduto e manifestò pubblicamente il proprio disprezzo per Matthew Shepard anche ai funerali.

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I giudici condannarono sia Henderson che McKinney a due ergastoli ciascuno, mentre le fidanzate a due anni di carcere per favoreggiamento. Si evitò la pena di morte su richiesta dei genitori di Shepard, a patto che non potessero godere della libertà condizionale. Fondamentale fu la testimonianza della Price, la quale, poco prima del verdetto, sostenne che McKinney era stato mosso anche da un forte sentimento anti-gay.

Negli Stati Uniti degli anni ’90 non esisteva una normativa organica per la lotta contro le discriminazioni in base all’orientamento sessuale. L’amministrazione Clinton, che solo pochi anni prima aveva avviato la controversa politica militare Don’t ask, don’t tell, promosse nel 1999 l’adozione di un provvedimento federale a tal fine, ma il Congresso lo respinse. L’anno successivo fu riproposto e accantonato dalla Presidenza del Congresso, al tempo repubblicana. Nel frattempo, anche in Wyoming si discusse nel merito, benché il provvedimento presentato non raggiunse i voti necessari per l’approvazione. Negli anni 2000, l’amministrazione Bush escluse dall’agenda la tutela antidiscriminatoria, a tal punto che nel 2007 il Matthew Shepard Act, promosso sia dalla Camera dei Rappresentanti che dal Senato, incontrò il veto dello stesso Bush. Solo nel 2008, a seguito dell’elezione di Barack Obama, il provvedimento trovò il via libera all’approvazione definitiva, entrando in vigore finalmente nell’ottobre 2009.

A distanza di anni, la sentenza fa ancora discutere. L’ammissione della Price, in piena tempesta mediatica, parse sin da subito debole, dettata più dalla paura che dal pentimento. La stessa Price, a conferma del dubbio, sconfessò anni dopo quanto detto prima del verdetto, sostenendo di aver mentito riguardo l’omofobia di McKinney, ritenendo che movente dell’omicidio “non fu di certo l’omosessualità di Shepard”. La confusione delle dichiarazioni della ragazza scatenò i detrattori del movente omofobico, che iniziarono a scavare a fondo nella vicenda e alla ricerca di un’altra verità. Uno di loro, lo scrittore (gay) Stephan Jimenez, ha pubblicato nel 2013 The Book of Matt, in cui cerca di dimostrare che il movente dell’omicidio sia collegabile al traffico di droga. Jimenez sostiene, dopo numerose interviste ad amici e conoscenti della vittima, che Shepard fosse un noto spacciatore di metanfetamine locale, e che i due l’avessero ucciso proprio a seguito di un litigio in merito. Le reazioni al libro sono state numerose e contraddittorie, soprattutto tra coloro che indagarono e lavorarono al caso, gettando ancora più confusione su un caso che sembra non trovare pace.

L’unica verità attestabile, ad oggi, è che Matthew è stato brutalmente ucciso: che i suoi assassini l’abbiano massacrato perché gay o per la droga (o entrambe) non ha più importanza. La sua morte non è stata vana, poiché ha svelato quell’America il cui odio scorre silenzioso per riaffiorare improvvisamente; la politica è stata costretta ad avviare un dibattito ormai in stallo a seguito del disinteresse delle amministrazioni precedenti. Il contributo al riconoscimento di tutele antidiscriminatorie rimane indiscusso, soprattutto grazie all’azione dei coniugi Shepard e degli amici di Matthew, i quali non hanno mai smesso di testimoniare come l’odio e la violenza uccidano ancora, anche in un’anonima cittadina del Wyoming come Laramie.

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