5 motivi per cui la comunità LGBT deve ancora occuparsi di HIV e AIDS

L'epidemia di HIV è un ricordo degli anni '90? Vorremmo tanto che fosse così, e invece...

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L’epidemia di HIV è un ricordo degli anni ’90? Vorremmo tanto che fosse così, e invece… Gli anni ’80 e ’90 sono felicemente lontani ed ora di AIDS non si muore più. O almeno, questo è ciò che ci siamo sentiti dire negli ultimi tempi. Si tratta di un’affermazione imprecisa, ma tutto sommato si può dire che non sia totalmente sbagliata.

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Allo stato attuale, in Italia, chiunque scopra in tempo di avere l’HIV riesce ad accedere a trattamenti efficaci, a controllare l’infezione e a non sviluppare l’AIDS. Di fatto, ricevendo una diagnosi in tempi ragionevoli, non si muore più, al contrario, si può vivere bene e a lungo, senza trasmettere il virus a nessun altro. Perché insistiamo tanto sulla diagnosi? Semplice: molte delle nuove infezioni registrate si realizzano tra persone che hanno contratto il virus e non lo sanno perché non fanno il test. Molti dei nuovi casi sono inoltre rappresentati dai cosiddetti Late Presenters, ossia coloro che vivono inconsapevolmente col virus per molto tempo prima di scoprirlo, con conseguenze nefaste sulla propria salute e a volte su quella degli altri.

Se la questione fosse semplice come appare nel mondo della logica pura, probabilmente ci saremmo già sbarazzati da tempo di questa terribile epidemia, dal momento che per la prevenzione e gestione dell’HIV abbiamo già molti strumenti a disposizione. La condivisione di siringhe, ad esempio, una delle maggiori forme di contagio dei primi anni, pare ora una specie di retaggio del paleolitico, mentre i rapporti sessuali continuano ad essere uno dei principali vettori di trasmissione.

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Crediamo che, soprattutto all’interno del mondo LGBT, sia necessario continuare a preoccuparci di HIV, per diversi ottimi motivi:

1) Gli uomini che fanno sesso con uomini sono tuttora la popolazione più colpita

No, non si tratta di rinforzare lo stereotipo per cui l’AIDS è stata da sempre considerata la malattia dei froci. Sappiamo bene che l’HIVnon fa distinzioni di genere e di orientamento , tuttavia i dati di cui disponiamo evidenziano che gli uomini che fanno sesso con uomini costituiscono ancora la fetta più consistente dei nuovi contagi. Che ci piaccia o meno, l’epidemiologia parla chiaro: gli eterosessuali (in Italia) si infettano meno di prima, così come gli utilizzatori di droghe iniettive. Noi maschi che facciamo sesso con altri maschi, invece, siamo ancora in vetta alle classifiche. Le ragioni sono tante. Solo per citarne alcune: il sesso anale è la pratica che espone al più alto rischio di contrarre l’infezione; la diffusione di un virus in un gruppo numericamente più piccolo è più semplice perchè meno siamo più probabilità abbiamo di avere più partner in comune; all’interno della nostra comunità il tema della salute è ancora un tabù e spesso crediamo che la cosa non ci riguardi; l’informazione che abbiamo spesso è imprecisa e, in alcuni casi, addirittura totalmente confusa; l’omofobia interiorizzata è il miglior modo per essere spaventati, divisi, irrequieti e dunque vulnerabili.

2) La comunicazione relativa a questo tema ha bisogno di linguaggi e contenuti adatti a chi ne usufruisce

Sappiamo bene che appartenere ad una comunità implica comprendere e utilizzare linguaggi, codici, modelli comportamentali e riferimenti culturali condivisi. Le persone LGBT nel nostro paese subiscono ancora forti discriminazioni e non godono degli stessi diritti di tutti gli altri cittadini. Quasi tutto il lavoro di comunicazione su HIV e salute svolto negli ultimi trent’anni ha avuto il pregio di parlare un po’ a tutti, ma l’enorme difetto di non essere davvero strategico e fruibile da chi ne aveva più bisogno. Un approccio sempre generalista, che però era molto medico e poco sociale. Le prime campagne, che nessuno di noi dimenticherà facilmente, erano figlie del comprensibile terrore degli anni ’90 e del tanfo di morte che si respirava al solo parlare di questo tema. Erano stigmatizzanti, vagamente crudeli e destinate ad incutere un disperato e cieco timore (come quella con l’alone viola attorno alle persone sieropositive, giusto per menzionare la più conosciuta). In altre parole, nessuno si è mai occupato del fatto che i maschi che fanno sesso con maschi avessero delle specificità a livello epidemiologico che richiedevano strategie mirate.

Avremmo avuto bisogno di qualcuno che ci spiegasse, senza moralismi e giudizi, come gestire col minimo rischio possibile, situazioni come gli incontri casuali, il sesso nelle dark room, l’utlizzo di droghe ricreative -anche durante il sesso- , il vivere quotidiano in una relazione sierodiscordante, il ricorso alla Profilassi Post Esposizione, il corretto utilizzo del preservativo e dei lubrificanti, ma anche il potere delle terapie antiretrovirali di fermare la trasmissione riducendo enormemente la carica virale. E invece siamo rimasti invisibili, inascoltati, informati in modo sommario, pieni di una grande ansia a volte impossibile da gestire e spesso tanto grande da scoraggiarci: molti di noi riescono a fare un test, molti di noi lo fanno anche e poi magari non sono in grado di tornare a ritirare il risultato. Il contatto con l’ambiente medico a volte è difficile, dichiarare il proprio orientamento sessuale può essere problematico, il camice bianco per alcuni costituisce l’emblema di un’autorità, anche morale, con cui non siamo pronti a confrontarci.

E poi c’è la criminalizzazione: se trasmetti l’HIV perché non sai di averlo a livello legale non ti succede praticamente nulla, mentre se lo trasmetti dopo aver scoperto che ce l’hai, allora per la legge italiana sei un criminale. Parlarne è difficile, perché se lo dici, temi di non fare mai più sesso, e questo timore a volte è legittimo. Non parlarne proprio, però, è pericoloso perché se non sei in terapia e qualcosa va storto rischi di passare guai seri. Il risultato è che il nostro approccio al tema è tutt’altro che realistico e spesso si passa da un estremo all’altro, dalla totale noncuranza alla più surreale ipocondria, atteggiamenti entrambi dannosi per noi stessi e per la salute nostra e delle nostre relazioni.

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3) La responsabilità per la tutela della salute è prima di tutto nostra

Anche se è facile puntare il dito contro il lavoro fatto finora a livello istituzionale, sanitario, ministeriale, avendo tutte le ragioni dalla nostra a pretendere di più, bisogna allo stesso tempo prendersi le proprie responsabilità e mettersi in discussione. All’interno della comunità LGBTQ, infatti, abbiamo tanti strumenti che potremmo utilizzare, se solo il tema della salute ci interessasse sul serio. Senza affermare che si fa poco o nulla per combattere HIV, sradicare lo stigma, creare il clima ottimale per un confronto politico minimamente concreto e combattere per ottenere tutto ciò di cui abbiamo bisogno, possiamo dire senza timore di sbagliare che si potrebbe fare ancora di meglio. Il dibattito sulla PrEP (Profilassi Pre Esposizione, ossia pillole che prevengono l’HIV), ad esempio,è una delle tante cose che è rimasto troppo a lungo arenato all’interno della comunità, ancorato a malcelati moralismi e alla comodissima e triste abitudine di salire sul podio dell’inattaccabilità morale per pensare: “io mi comporto bene, a me non succede/a me non serve, quindi non mi interessa che questa profilassi sia resa disponibile agli altri”. Si è lavorato troppo poco sull’erogazione di servizi per persone LGBT che vivono con HIV, si parla troppo poco di responsabilità condivisa nella prevenzione, ancora meno si è tentato di stare al passo coi tempi elaborando un discorso maturo e concreto. Le forme e i contenuti adatti a noi dovremmo proporli noi, con coraggio, determinazione e chiarezza. Invece, troppo spesso il nostro attivismo si ferma ai (pur fondamentali!) diritti civili, lasciando un po’ al margine altri importanti e soprattutto urgenti spazi di discussione. La comunità Trans resta fortemente marginalizzata, al punto che neppure riusciamo ad avere dati specifici sull’epidemiologia di questo gruppo, di cui tendiamo a sapere poco o niente e perlopiù per sentito dire. La responsabilità per la nostra salute, compresa quella di tutte le minoranze che compongono il variegato panorama LGBTQ, è soprattutto nostra. Il benessere psico-sociale di tutti è un obiettivo che dobbiamo porci noi in primis, e ha tutto il diritto di stare al primo posto nella nostra agenda. Educarci reciprocamente, non è solo un atto di civiltà, ma anche di amore.

4) Una comunità unita e sierocoinvolta è più forte e può vincere questa battaglia

Essere sierocoinvolti (un neologismo che ci piace molto) vuol dire essere attivi e partecipi nel dibattito su HIV indipendentemente dal fatto che ci riguardi direttamente. Che uno sia sieronegativo, che non conosca il proprio stato o che sappia, invece, di essere sieropositivo, resta il fatto che questa battaglia è di tutti. L’epidemia non guarda in faccia nessuno e, giusto per dirne una, non importa avere uno o cento rapporti senza preservativo: se l’infezione capita può succedere, anche per quell’unica volta. Le persone LGBT che vivono con HIV tendono a restare invisibili perché la discriminazione che subiscono è molto pesante (spesso al peso di vivere HIV si accompagnano infatti ideazioni suicidarie, disturbi della salute mentale, depressione, stati d’ansia). Al nostro movimento manca la loro voce, quella di chi HIV lo vive, quella che di fatto non siamo pronti ad ascoltare o che non ci va di sentire, perché ci ricorda che il virus esiste ancora e che questo problema non si può ignorare. La discriminazione che noi stessi operiamo ci divide dall’interno e ci rende più fragili, ed è su questa fragilità strutturale che il virus si adagia comodamente. In molti paesi d’Europa, le comunità si sono mobilitate e hanno creato strutture apposite per far fronte ai bisogni di salute specifici delle persone LGBT. Fortunatamente, seppur con mille difficoltà, anche l’Italia adesso ha un centro community-based di riferimento, a Bologna, che collabora con le strutture sanitarie locali. Ci auguriamo che sia lo spazio giusto per dare avvio ad un rinnovamento culturale e ad un decremento significativo delle nuove infezioni, anche grazie a diagnosi più tempestive.

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5) Siamo stanchi di avere le idee confuse e, di conseguenza, di avere paura

Siamo decisamente stanchi di vivere nel terrore. La nostra sessualità, specie se siamo nati prima degli anni ’90, nasce, cresce e si modella all’ombra del grande terrore dell’AIDS. Un po’ di questa paura, quella realistica e concreta, ci serve a stare attenti alle scelte che operiamo sotto le lenzuola e nella nostra vita. Ma come facciamo ad essere realistici e concreti se di HIV ne capiamo davvero poco? I telefoni verdi, così come gli ospedali e persino gli studi dei medici di base, pullulano continuamente di domande al limite dell’incredibile: ho baciato una persona con HIV, rischio qualcosa? Un ragazzo mi è venuto su un braccio, devo fare una profilassi? E via dicendo. Se è vero che l’HIV si può prendere, è vero pure che non si tratta di un’influenza e non si trasmette poi con tutta questa facilità. Eppure la maggior parte di noi, in realtà, non è in grado di individuare i comportamenti che lo espongono ad un rischio reale e di distinguerli da quelli che invece hanno un grado di “pericolosità” decisamente trascurabile, per non dire del tutto inconsistente. La paura è quel bel dito dietro cui ci nascondiamo quando decidiamo di non fare sesso con qualcuno solo perché ha l’HIV, alimentando quella stupida catena del silenzio che permette al virus di continuare ad attraversare indisturbato i nostri corpi e le nostre vite. Quella paura che viviamo per mancanza d’informazione ci fa desiderare di non conoscere il nostro stato, anche quando potremmo stare tranquilli, e ci allontana dallo strumento forse più importante di tutti: il test. Allora chi ha HIV teme di essere escluso e preferisce annegare nel silenzio e nell’isolamento, mentre chi non ce l’ha può decidere se infischiarsene, credendosi immune, o andare affannosamente alla ricerca di informazioni chiare per mettere fine alle proprie ansie. Nel mezzo ci sono tutti quelli che lavorano in questo settore o che, per qualche ragione, hanno avuto accesso a contenuti di qualità: troppo pochi. Credo sia nostro dovere creare un ponte e lavorare in un clima sereno di collaborazione: ascolto, empatia e comprensione reciproca. Non ci sono nemici e alleati; non ci sono vincitori o vinti.

Anzi, sì, c’è un nemico molto forte, ma non è fra noi e, fino ad ora, sta avendo la meglio.

Paolo Gorgoni.

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