I manicomi, per decenni, hanno ospitato anche gli omosessuali, visti come “invertiti” da curare.
Da molto tempo i dottori e psicologi sono contro ogni tipo di terapia riparativa o di cure per guarire dall’omosessualità, prendendo in esame i numerosi tentavi portati avanti nel corso degli anni. E che mai hanno portato a risultati soddisfacenti (per l’epoca). I primi a proporre il ricovero nei manicomi per gli omosessuali furono i francesi: a Parigi, grazie anche alla continua industrializzazione, ci fu un passo in avanti anche dal punto di vista sociale, portando anche la piccola comunità LGBT+ a mostrarsi. E a crescere sempre più.
L’internamento in un manicomio per chi si mostrava omosessuale (o transessuale) dipendeva dalle nazioni e dalla loro apertura mentale e legale. In Italia, stranamente, vi era un bassissimo numero di internati per un’inversione sessuale (come veniva definita la patologia), e il motivo del ricovero in manicomio non era necessariamente legato al proprio orientamento sessuale. Difatti, l’internamento non era previsto per tutti gli omosessuali, ma per coloro che mostravano dei comportamenti sconvenienti, travestitismo, atti con minorenni, oltre che depressione e alcolismo. Quindi, l’omosessualità della persona era indirettamente il motivo.
Frequenza e cure in manicomio per gli invertiti
In Italia non esiste una documentazione riguardante i ricoveri nei manicomi, ma dai dati raccolti durante gli anni si è potuto constatare che il numero di persone ricoverate appartenenti alla comunità LGBT+ avveniva in modo molto confusionario. Non c’era quindi un ricovero periodico, bensì dipendeva dai volontari, dalle famiglie e dai dottori stessi, con la convinzione (condivisa o meno) di guarire.
Tra il 1880 e il 1920, la documentazione riporta diversi tentativi di cura, tutti fallimentari. E nonostante gli anni di questi ricoveri, la maggior parte degli italiani non vedeva l’orientamento sessuale come un problema medico e sanitario, bensì morale e religioso. Nonostante questo, alcuni pazienti vennero sfruttati contro la loro volontà per tentare di scoprirne la causa e la possibile cura.
Il professore Lorenzo Benadusi, del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Roma Tre, ha specificato che le cure da parte dei medici in manicomio consistevano nell’imposizione delle regole dettate dalla società, secondo la quale ognuno aveva il suo ruolo prestabilito. Quindi, con l’imposizione di un comportamento, di uno stile di vita e di un controllo personale sugli impulsi, un omosessuale poteva superare l’attrazione verso persone dello stesso sesso. Insomma, avrebbe vissuto come un represso. Molti manicomi italiani, visto il fallimento delle cure, avevano confermato l’impossibilità di convertire una persona. Erano così indirizzati verso lavori isolati, e certi impulsi erano scongiurati.
La storia in Italia
I casi documentati di omosessuali ricoverati sono molti.
- Nel 1883, il caso più conosciuto in Italia riguarda Ersilia, internata nel manicomio di Reggio Emilia. La ragazza, con un deficit di apprendimento, lavorava in una fabbrica e qui avrebbe conosciuto una collega, della quale si era innamorata. Per tutto l’anno dell’internamento, non dimenticò mai la sua amata, come confermano le lettere che inviava periodicamente alla famiglia.
- Nel 1885, Pasquale Za venne rinchiuso nel manicomio provinciale di Napoli. Era un femminiello, in arresto per piccoli furti. Dopo qualche giorno di carcere, l’invio al manicomio, dove si mostrava molto esuberante. Malato di tubercolosi, morì dopo 6 mesi, a 28 anni.
- Nel 1888, una ragazza venne internata dalla famiglia perché le piaceva indossare abiti maschili. Corteggiando poi le ragazze, è una delle poche persone che mostrava solo il lesbismo come particolarità del ricovero. Per problemi mentali o altro, gran parte degli altri casi mostravano l’omosessualità come fattore secondario.
- Arrivando a tempi più recenti, è famoso il caso di Carlo Di Marino. Nel 1978 è ricoverato con la forza in un manicomio, su volere della famiglia. Omosessuale, la famiglia voleva che diventasse un vero uomo, costringendolo anche all’elettroshock. Una volta uscito, denunciò i suoi genitori. La pratica dell’elettroshock nei manicomi per curare l’omosessualità era comune in Italia dal 1971. Attraverso le scosse elettriche ai genitali al momento dell’eccitamento per nudi maschili, si associava quell’eccitazione al dolore, reprimendo così l’impulso.
Quando non erano le famiglie a obbligare il ricovero, erano i pazienti stessi che decidevano di sottoporsi all’internamento, seguendo le indicazioni dei medici. In certi casi, i pazienti mostravano anche un notevole cambiamento, sia del comportamento che degli impulsi sessuali. Un accurato lavaggio del cervello.
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Beh, diciamo che non si può dire che in Italia vi sia un'omofobia particolarmente aggressiva. Certo, gli omofobi ci sono, ma come ci sono i razzisti e ci saranno per sempre. Guardiamo il lato positivo, non viviamo in Africa, Tanzania, Cecenia, Russia o Medio Oriente