STONEWALL: LA STORIA

La cronaca della rivolta di Stonewall fatta da Edmund White

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6 min. di lettura

Edmund White, uno dei più interessanti scrittori della nuova generazione gay americana, ci ha lasciato in questo libro la più bella narrazione degli avvenimenti del 28 giugno 1969, quando nel quartiere gay di New York, davanti al bar Stonewall, i gay per la prima volta si ribellarono alle angherie della polizia. Da allora, il 28 giugno è diventata la giornata dell’orgoglio gay.

da LA BELLA STANZA E’ VUOTA, di Edmund White, Edizioni Einaudi, 1992 (originale del 1988)

Lou si era dato alla prostituzione. Nonostante ora guadagnasse piú di centomila dollari all’anno nella pubblicità e fosse vicino alla quarantina, poteva ancora assomigliare a un vagabondello adolescente un po’ ottuso. Dopo aver passato tutta la giornata a lanciare una campagna pubblicitaria, si cambiava e si metteva una T-shirt e dei jeans che uscivano belli freschi dall’essiccatore e un trito cappello da cowboy del tipo che non si vede mai a ovest di Jersey. Poi si piantava, magro e derelitto, all’angolo tra la Third Avenue e la Fifty-first Street e si faceva rimorchiare dagli uomini sposati che battevano in macchina. Lo incontrai all’albergo a pochi passi da Times Square. I nostri clienti erano già ubriachi e suonavano un nastro della quinta sinfonia di Beethoven che avevano manipolato con delle rapide inserzioni delle ballate di Joni Mitchell. Lou e io sapevamo chi era Joni Mitchell, ma fingemmo di non aver mai sentito parlare di Beethoven. I nostri clienti si strizzarono l’occhio al di sopra delle nostre teste.

Dovetti indossare una bardatura di cuoio, ficcare una piuma di cigno nel culo del mio cliente e chiamarlo “Bel Pavoncino” mentre incedeva per la stanza tutto orgoglioso, piegando la testa da una parte all’altra come un uccello e tirandosi nel frattempo una sega in una maniera fin troppo umana. Cinquanta dollari per me e settanta per Lou che, dopo tutto, aveva organizzato la festa. Dopo, Lou e io scivolammo verso il Village. Non disprezzavamo i nostri clienti. In effetti, essere riuscito a vendermi alla mia età avanzata (avevo ventinove anni) mi lusingava.

In quel momento mi sentivo finalmente come uno di quei duri che avevo ammirato al Riis Park e lí a New York allo Stonewall. La notte era calda.

Noi gay ci eravamo impadroniti di tutta Christopher Street; anche i negozi erano gay. Sebbene i bar fossero di proprietà della mafia, in un certo senso li consideravamo nostri. Proprio come ci sembrava nostra quella strada, quella sola strada in una cittá di diecimila strade. Naturalmente, circolavano ancora racconti di violenze da parte della polizia. Allo Stonewall la pista da ballo era stata presa d’assalto dai latini. Avevo un amico, Hector Ramirez, un insegnante d’asilo che, siccome viveva con i genitori nel Bronx, ogni pomeriggio, alla fine della scuola, prendeva in prestito il mio appartamento per provare dei nuovi passi di danza con un altro latino di ventidue anni, con dei baffi simili e con una camicia simile di cotone beige, stirata con cura, che portava su delle T-shirt e dei pantaloni con le pinces e la vita alta tenuti su da una sottile cintura nera di coccodrillo. Quella sera erano lí, uscivano piroettando da una forte stretta, le anche su dei piccoli pistoni, i volti indecifrabilmente cool. Un altro amico, la macchina mortale, mi si avvicinò, mi poggiò quelle sue mani nere taglia dodici sulle spalle e mi fissò negli occhi con un folle luccichio: – … è morta. – Chi? – gridai al di sopra della musica. – Judy. Judy Garland.

Poi la musica andò via e il bar fu pieno di poliziotti, si accesero le luci forti e fu ordinato a tutti di uscire per strada, tutti tranne chi ci lavorava. Suppongo che la polizia si aspettasse che ce la svignassimo nella notte, come avevamo sempre fatto prima, ma rimanemmo in piedi dall’altra parte della strada sul marciapiede del piccolo parco triangolare. Dentro la palizzata di metallo si ergeva maestosa la statua, non a grandezza naturale, del generale Sheridan, ufficiale della guerra civile. Il nostro gruppo attirò una folla ancora maggiore. I poliziotti fecero entrare a spintoni metà dei baristi in una macchina della polizia e se ne andarono, lasciandosi alle spalle parecchi altri poliziotti, barricati dentro lo Stonewall con il resto del personale.

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Tutti quanti fischiavano contro i poliziotti, proprio come se stessero commettendo un atto vergognoso. Continuavamo a sbirciarci intorno, eccitati e impauriti. Avevo voglia di comportarmi in maniera responsabile e di disperdere la folla pacificamente, mandando tutti a casa.

Dopo tutto, per cosa protestavamo? Per avere diritto alla nostra ‘patetica malattia’? Ma a dispetto di me stesso venni preso da un’euforia scatenata, equivalente gioioso del furore che mi aveva fatto strangolare Simon. Lou stava già aiutando parecchi neri a divellere un parchimetro. Lo torsero finché il tubo di metallo si spezzò. Per caso, il quadrante si ruppe e le monetine si sparpagliarono sul selciato. Si misero tutti a ridere e si buttarono giú a raccattare quella manna; a quella festa sempre piú grossa la pinata era stata finalmente spaccata a furia di colpi di bastone.

Due bianchi della media borghesia con delle magliette Lacoste mi si avvicinarono scuotendo la testa con disapprovazione, – Questo potrebbe far regredire la nostra causa per decenni, – disse uno di loro. – Non sono contrario alle manifestazioni, ma a quelle pacifiche fatte da gente responsabile in giacca e cravatta, non da questi miserabili travestiti violenti. Feci con la testa un segno d’assenso, sobrio e dolente. Ma un minuto dopo mi spinsi piú vicino per vedere cosa stava facendo Lou. Qualcuno accanto a me gridò: “Gay è bello”, a imitazione del nuovo slogan che diceva: “Nero è bello”, e ridemmo tutti quanti e ci accalcammo verso la porta.

Il traffico su Christopher Street si era bloccato. Lou, con una macchia nera di grasso sulla T-shirt, stava in piedi accanto a me e mi teneva la mano intonando: “Gay è bello”. L’intonavamo tutti, sapendo quanto fossimo ridicoli in quella che era una parodia di una vera manifestazione, ma sentendoci comunque storditi e fiduciosi. A un certo punto qualcuno disse: “Siamo le pantere rosa”, e questo ci fece ridere di nuovo. Poi mi sorpresi a immaginare scioccamente che un giorno i gay potessero costituire una comunità e non una diagnosi. – Questa potrebbe essere la prima rivoluzione buffa, – disse Lou. – Non sono grandi questi ragazzi, Bunny? Le poliziotte non si sarebbero dovute immischiare nelle nostre faccende il giorno della morte di Judy. Guarda, hanno trasformato il parchimetro in un ariete.

Le doppie porte di legno dello Stonewall si schiantarono. Sentivo i poliziotti dentro gridare nelle ricetrasmittenti. Uno di loro uscí fuori tenendo una mano alzata per calmare la folla, ma lo fischiarono tutti e cominciarono a prenderlo a spintoni finché non si ritirò dentro a Fort Disco. I bidoni di spazzatura della città traboccavano di bicchieri di carta, tovaglioli unti e giornali buttati via. Arrivò di corsa un nuovo gruppo di gay, svuotò un bidone nel vano della porta abbattuta, lo bagnò con il liquido da accendini e gli dette fuoco. Si sollevò una nuvola di fumo grigio. – Stanno esagerando, – dissi. Un furgone cellulare girò l’angolo della Seventh Avenue e risalì Christopher Street in senso contrario. I poliziotti sgombrarono il marciapiede, formarono un cordone e spinsero in fretta e furia il resto dei baristi nel furgoncino al di là della spazzatura fumante, ma la folla fischiò ancora píú forte. Una volta partito il furgoncino, i poliziotti ci allontanarono lentamente dall’entrata del bar. Lungo la strada, alcuni dei nostri ribaltarono una Volkswagen parcheggiata. I poliziotti si precipitarono in quella direzione mentre dietro di loro veniva rovesciata un’altra macchina. I finestrini andarono in frantumi e caddero sul selciato. Adesso cantavano tutti la canzone dei diritti civili, We Shall Overcome.

Venne chiamata la squadra antitumulti. Protetta dagli scudi, marciò come un esercito romano lungo Christopher Street, partendo dalla prigione femminile, che risuonava di fischi e del fracasso delle tazzine di metallo contro le sbarre di acciaio. La squadra, roteando i manganelli, respinse i gay giù per Christopher Street, ma ritornarono tutti indietro per Gay Street e spuntarono dietro la squadra disposti in una fila di ballerine che ballavano il can-can. “Uh-hu, uh-hu”, gridavano. Lou e io rimanemmo fuori tutta la notte, gridando come bambini, riunendoci in gruppetti per programmare la stategia del giorno seguente, importunando l’esercito di poliziotti che stavano sbarrando Sheridan Square in quanto zona di tumulti e si rifiutavano di farci passare le macchine o i pedoni. Rimasi a dormire da Lou. A letto ci abbracciammo come fratelli, ma eravamo troppo eccitati per dormire. Ci precipitammo a comprare i giornali del mattino per vedere come era stata descritta la rivolta di Stonewall. – E’ proprio la nostra presa della Bastiglia, – disse Lou. Ma sulla stampa non trovammo nemmeno una parola sulla svolta delle nostre vite.

Due link sullo storico bar Stonewall: https://www.columbia.edu/cu/libraries/events/sw25/case1.html

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