“Tutto iniziò col sesso in seminario”: storia di un ex parroco gay

"Il vescovo andava nei battuage, lo sanno tutti. Io ora vivo la mia storia apertamente".

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L’omertà della Chiesa sulla vita sessuale e sentimentale di tanti preti gay non è una cosa che riguarda solo l’Irlanda, di cui vi abbiamo raccontato ieri . In Italia, la situazione non è affatto diversa. Abbiamo raccolto la testimonianza di un prete che ha rinunciato al magistero per vivere serenamente la storia con il suo compagno e perché non sopportava più la doppiezza che gli ambienti ecclesiastici gli imponevano. Ci ha chiesto di mantenere l’anonimato “non per me, ma per le persone che potrebbero essere coinvolte. Vivo in una piccola città”.

Cominciamo dal seminario: quando sei entrato?

Avevo 23 anni, avevo studiato architettura e non ero ancora consapevole del mio orientamento sessuale. Pochi mesi dopo è iniziata una relazione con un compagno di seminario. Più basata su giochi sessuali che altro, in realtà, ma è andata avanti per molto tempo. Ne parlammo con il nostro padre spirituale, gay anche lui come anche il rettore del seminario, e mai ci propose un percorso alternativo, un aiuto, mai dei consigli. Secondo lui andava tutto bene.

Quando nel 1997 uscì un documento ufficiale in cui si affermava che non erano ammessi seminaristi omosessuali, dissi al rettore che sarei andato via, ma mi rispose che niente ostacolava il mio diventare prete e che quindi, potevo restare. Cercai il sostegno di uno psicologo, ma mi venne vietato perché, secondo loro, bastava il padre spirituale.

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Com’era il rapporto con il tuo collega di seminario?

Lui negava di essere gay, nonostante la nostra relazione. Io intanto, avevo fatto un percorso di consapevolezza e a 24 anni mi sono detto chiaramente chi ero. L’ho sempre saputo, in realtà, ma ne ho definitivamente preso coscienza allora. Poi ho avuto altre storie con altri seminaristi, cose sporadiche, soprattutto sesso. Tutto è peggiorato quando sono diventato prete, nel 2000.

Perché?

Il seminario è un ambiente molto protetto, per certi versi. È entusiasmante perché fai molte attività, vivi in comunità. Il nostro, poi, era molto aperto, frequentato da tanti giovani. Tutto questo compensa le esigenze di affettività. Ma quando diventi prete, sei solo con i tuoi problemi e i tuoi tormenti. Ed è naturale che cerchi un appoggio per affrontare i problemi di cui non puoi parlare con nessuno. È iniziato un periodo di incontri sessuali occasionali e così si è creata una doppia vita. Di giorno ero il parroco della cattedrale, amato e stimato, di notte avveniva la trasformazione.

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Come vivevi questa situazione?

Devo dire che tutto andava abbastanza bene. Avevo accettato questo stile di vita. Poi, però, nel 2002 tutto è cambiato di nuovo. Ho conosciuto un ragazzo con cui ho avuto una relazione stabile per due anni. Quando ci siamo lasciati, lui è andato a raccontare tutto ai miei superiori, vescovo incluso. A quel punto, quello che tutti sospettavano già, è diventato ufficioso e mi hanno fatto capire che dovevo stare attento.

In che senso?

Nel senso che dovevo evitare che la cosa diventasse pubblica, perché finché si mantiene il segreto, va tutto bene. Non mi hanno offerto nessun aiuto, neanche in questo caso. Intendo, il vescovo è gay anche lui avrebbe potuto dire: “Siamo uomini, affrontiamo la questione, assumiamoci la responsabilità”. Invece niente. Anzi, mi disse che se avessi avuto una relazione con una donna, e si fosse saputo, non sarebbe stato un problema. Ma con un uomo, cambiava tutto. Un prete che sta con una donna e magari ci fa anche un figlio, è uno scandalo più gestibile per la chiesa. Io non capivo: se il problema sono la castità e il celibato, cosa cambia che si tratti di un uomo o una donna?

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Ad un certo punto, sei entrato in crisi.

Sì, mi sentivo doppio, come persona ancora prima che come prete. Decisi di andare da una psicologa per cominciare un cammino con lei. Dopo un anno e mezzo, ho rinunciato al ministero. La doppiezza mi impediva di essere sereno. Un prete deve dare delle norme e se è lui per primo a non rispettarle, si sente doppio. Percepivo di essere in difetto nei confronti delle persone verso cui avevo delle responsabilità ed ho lasciato. Ma non ho mai chiesto la riduzione allo stato laicale, perché io mi sento ancora un prete. Sento che il cammino che ho fatto è quello giusto, ma non sono più in grado di mantenere fede alle richieste che la Chiesa mi fa. E mi manca molto fare il parroco.

Come hanno reagito i tuoi parrocchiani quando hanno saputo?

Io con loro mantengo un ottimo rapporto. Con alcuni siamo amici, li frequento insieme al mio compagno, con cui convivo da sette anni. Loro non si sono mai scandalizzati. I mei confratelli, invece, loro non mi salutano neanche più. Li incrocio per strada e fanno finta di non vedermi. Sono stato tagliato fuori perché sono rimasto in città: tutti si aspettavano che sarei andato a vivere altrove. Ma io non avevo niente da cui scappare e sono rimasto.

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E adesso, come vivi le posizioni della Chiesa nei confronti dell’omosessualità?

C’è molta falsità: c’è una teoria, che è fatta delle posizioni ufficiali, e c’è una pratica che è molto diversa. Questo disorienta e confonde le persone. I preti gay esistono e hanno relazioni anche sessuali. Mi riferisco alla vicenda dei seminaristi gay, ad esempio. O al fatto che tutti sanno che il vescovo, quando era prete, frequentava i battuage della città. Ma la cosa riguarda anche i preti eterosessuali, sia chiaro. Il punto, ancora una volta, è il celibato che nasce storicamente nelle comunità dei frati e dei monaci, dove la vita comunitaria, comunque, compensa le esigenze di affettività. Ma i preti sono soli. Il celibato è fasullo e disumanizzante perché impone ai preti una castrazione affettiva oltre che sessuale.

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Adesso come vivi?

Convivo con il mio compagno da sette anni. Lui si dice non credente e considera il fatto che io sia stato prete come un lavoro qualsiasi. Sebbene ci conosciamo da prima che abbandonassi il ministero, non mi ha mai chiesto di fare questo passo. Certo, adesso possiamo stare insieme e vivere tutto alla luce del sole ed è certamente meglio. Ho trovato anche un lavoro: faccio il commesso in un negozio dove tutti conoscono la mia storia. Nessuno ha mai avuto dei problemi per questo. Ma ho dovuto ricostruirmi una vita da solo: la Chiesa mi ha abbandonato a me stesso.

di Caterina Coppola

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