Zucchero e Catrame, intervista all’autore Giacomo Cardaci: “L’identità è un cantiere in costruzione”

Gabriele Ottaviani ha intervistato per noi Giacomo Cardaci, tornato in liberia con il romanzo LGBT Zucchero e Catrame.

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Scrittore, avvocato per i diritti LGBT, fondatore del gruppo di lettura LGBT di Milano, Giacomo Cardaci è in libreria con “Zucchero e catrame”, storia di formazione di un giovane gay, edito da Fandango. A intervistarlo per Gay.it Gabriele Ottaviani.

Cosa rappresentano lo zucchero e il catrame del titolo?

Più che una storia di “formazione”, a dire il vero, è una storia di “sformazione”: la definizione migliore l’ha data Matteo B. Bianchi, nel suo podcast “Copertina”, dicendo che questo è un romanzo su una “corruzione”, quella del piccolo Cesare, il protagonista: su come un bambino puro come lui si sia potuto cacciare in un guaio schifoso. Smarginarsi. Incatramirsi. Contaminarsi. Ma anche, alla fine, imparare chi è davvero. “Zucchero e catrame” rappresenta l’insieme delle contraddizioni, delle sfumature, che si celano in ognuno di noi. Ognuno di noi, infatti, può essere vittima e carnefice, colpevole e innocente.

Il romanzo si apre, appunto, in carcere: perché questa scelta?

Cesare è finito in prigione perché ha commesso un delitto scabroso, sulle orme di un ragazzo di cui desiderava tutto: i muscoli, le ascelle, il cazzo, ma anche l’identità, le certezze, la capacità di mandare a fanculo i propri genitori. Ma ci è finito anche perché non gli è stato insegnato a guardarsi dentro, a capire chi è davvero, e quindi a differenziarsi dagli altri. La sua identità è un cantiere in costruzione.

La provincia e Milano, che tu descrivi, non sono semplicemente un fondale, hanno un ruolo primario nelle vicende: di che ambiente si tratta?

Avrai intuito che “Milano zucchero e catrame” è anche il verso di una canzone di Lucio Dalla. Milano è coprotagonista in questo romanzo: Porta Venezia, Greco Pirelli, Garibaldi… si tratta di una Milano smarginata, opaca, perturbante. Mi ha emozionato quando è stato scritto che questo romanzo è “pasoliniano”. In effetti è un romanzo di borgata, sociale. Ho citato, in esergo, oltre al “Le streghe” di Roal Dahl, il passaggio in cui David Copperfield, nel libro omonimo di Dickens, stremato dalla povertà, è costretto a svendere il proprio panciottino a un aguzzino che tira giù il prezzo, in un gioco sadico e umiliante. Cesare subirà un altro tipo di gioco, ma la dinamica dei prepotenti, dei ricchi che tirano giù il prezzo, non è molto cambiata.

Quali sono gli elementi che più degli altri pensi che contribuiscano alla formazione di un individuo?

Come ti dicevo, a me interessava raccontare gli elementi che contribuiscono, più che alla “formazione”, alla “sformazione” di un individuo: alla perdita della propria identità. Cesare, all’inizio, è un bambino esilarante, capace di ribellarsi, di essere sé stesso, insieme alla sua amica Lines (in realtà Ines, ma lui la chiama così perché il nome gli ricorda la pubblicità degli assorbenti). Credo che il procedimento di sformazione di un individuo inizi proprio quando, capendo di essere detestato per il modo in cui è, inizia a sedurre gli altri, a modificarsi, sottilmente, inconsciamente, per trasformarsi in quello che gli altri vogliono che sia. Peggio ancora: in quello che pensa che gli altri vogliono che sia. Ma non essere se stessi porta a conseguenze terribili.

Che rilevanza ha la scoperta della propria sessualità? E come si può viverla serenamente sin dall’adolescenza?

Siamo animali sessuali già da bambini: io ricordo di aver avuto sogni erotici e pulsioni fortissime quando ero all’asilo, sia nei confronti di coetanei, che di adulti. L’unico modo per vivere serenamente il sesso, come tutto il resto, è usare ciò che ci distingue dagli altri animali: la parola. Parlare è ciò che ci salva sempre, perché rallenta il pensiero, lo districa, ci permette di conoscerci meglio. Non è forse vero che dopo una bella chiacchierata su ciò che ci inquieta stiamo sempre meglio?

“Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza.” L’inizio di “Seminario sulla gioventù” di Aldo Busi non ha bisogno di presentazioni, ma è davvero così? Il dolore passato rimane o se ne va?

Ne parlo molto nel mio secondo libro, “La formula chimica del dolore”. Detesto la retorica di chi sostiene che il dolore nobilita l’essere umano: la trovo banalizzante, svilente, un cliché stracotto e pascolato. Le ferite, gli abbandoni, non ci rendono migliori, anzi, a volte ci incattiviscono: nel mio caso, però, mi hanno dato la capacità di riconoscere le ferite e gli abbandoni altrui, e per questo di empatizzare di più con gli altri. Di essere più fragile, sì, ma anche più umano.

La famiglia, nel tuo romanzo, è il luogo in cui per la prima volta nella vita si sperimentano dinamiche e giochi, anche perversi, di potere: che cos’è per te la famiglia, e perché è sempre al centro di polemiche tra quelli che, ognuno a proprio modo, pensano che solo il modello in cui si riconoscono sia giusto?

La famiglia è prima di tutto un costrutto sociale, e quindi artificiale e variabile secondo il tempo e il luogo in cui si vive. In questa fase storica stiamo tentando di disintossicarci dal modello di famiglia borghese, per fortuna in declino: quella dietro la quale si consumano meschinità, cattiverie, prepotenze, tradimenti, ma che deve apparire solida, felice, stabile, eterna. È il mio incubo. Al mio matrimonio a Copenaghen non ho invitato buona parte dei miei famigliari: non sopportavo l’idea di dare un posto a loro e toglierlo alle persone che davvero amavo davvero. Quando ho fatto il trapianto di midollo ho scoperto una cosa incredibile: ci sono persone dall’altra parte del mondo che hanno una compatibilità al 100% con il nostro DNA e ci possono quindi donare il midollo, mentre i nostri stessi famigliari hanno, se va bene, una compatibilità del solo 50 %. È una bella metafora: si può essere molto più compatibili con perfetti sconosciuti, nati in India, e totalmente incompatibili con i parenti più vicini. Anche il mio protagonista, e la sua anziana protettrice, Giovanna, lo sanno bene.

La nostra società appare sempre più violenta, rissosa, rabbiosa, invidiosa, razzista, volgare, omofoba: secondo te perché?

Perché vogliamo avere tutto. E non sappiamo vivere le frustrazioni. Non sappiamo fare rinunce. La vita però è anche questo: rinunciare, non potere, non avere.

Tu sei giurista: cosa pensi della legge Cirinnà? E quanto è indietro, se è indietro, il nostro Paese, a tuo avviso, per quel che concerne i diritti civili? Quali leggi mancano?

Questa legge è tanto importante, quanto umiliante, perché, se da una parte ci attribuisce i diritti (e i doveri!) più importanti, dall’altra ci deturpa, ci imbratta, ci spoglia della nostra dignità, ci qualifica come animali di serie B, ci priva di numerosi diritti (ne ho parlato in una lezione su youtube). Per questo io, prima che venisse promulgata, ho deciso di andare a sposarmi all’estero: non avrei mai potuto sopportare questa “umiliazione di stato”. La colpa è di coloro che hanno votato i cinque stelle, che avrebbero potuto votare il testo originario di Monica Cirinnà, e che invece ci hanno accoltellato alle spalle, sobillandoci con le cretinate sul canguro. Cosa manca? La legge sul matrimonio egualitario, sull’omofobia e sul bullismo. Le leggi a tutela dei più deboli, insomma.

Che esperienza è quella del gruppo di lettura LGBT di Milano che hai fondato?

È un’esperienza in cui la lettura di un libro scelto insieme viene condivisa in un incontro in cui si parla del libro, si condividono le emozioni provate intorno a un tavolo con tè e pasticcini. È molto arricchente, perché ognuno di noi vede nei libri qualcosa che un altro non riconosce: come in un quadro astratto. Ogni sera ne usciamo elettrizzati. E poi, una domenica al mese, facciamo le petit dejeuner letterarie, in cui leggiamo una poesia e giochiamo al quiz degli incipit. Siamo un gruppo davvero bellissimo! Io lo dico sempre: meno GRINDR, più libri LGBT!

Che diresti a un ragazzo che fa fatica a fare coming out? Com’è stato il tuo?

Gli direi che fare coming out comporta il rischio di essere rifiutati: ma mentire su chi siamo davvero, e quindi manipolare gli altri, è molto peggio: non essere sé stessi porta solo guai, come al protagonista del mio libro, Cesare. Il mio coming out? A Instanbul, in gita, in seconda superiore, ubriaco fradicio: prima ero un ragazzo solitario, abitato da mille paure, da allora ho potuto essere me stesso e sprigionare la mia allegria, la mia creatività. Quando tornai a Milano, mio fratello, etero, ci rimase male solo perché aveva scommesso con un suo amico che non fossi gay, e dovette dargli 50 euro. Mi portò in una discoteca (un suo caro amico faceva il cubista) e mi fece conoscere quello che poi sarebbe diventato il mio primo fidanzato, con cui ebbi una bella storia d’amore. I miei genitori? All’inizio preoccupati, ma poi, bè, dovevate vedere la loro faccia quando mi sono sposato. Erano in estasi. Fidatevi: non dichiararsi è terribile.

Intervista di Gabriele Ottaviani.

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