Sesso, sesso, come un’ossessione. A Cannes, quest’anno, sembra quasi un mantra. Dopo aver visto un capolavoro folle, deviante, originalissimo come il provocatorio “Antichrist” del supremo regista danese Lars Von Trier ("Le onde del destino", "Il Regno"), in grado di spaccare in due la platea – fischi e buu alla prima stampa, solo applausi alla seconda – viene davvero da pensare che finalmente il sesso, almeno al cinema, può essere visto sotto una nuova, perturbante luce. Magnifico racconto gotico seminale in grado di lanciare un nuovo genere ‘fusion’, il porno-horror, lo scioccante “Antichrist” è incentrato sull’elaborazione del lutto di una coppia borghese interpretata dal nodoso Willem Dafoe e dalla macilenta Charlotte Gainsbourg, entrambi bravissimi.
Dopo aver perso fatalmente il figlioletto, si ritirano a Eden, la casetta in legno nascosta in una foresta dove la moglie aveva scritto una tesi sulla stregoneria senza mai concluderla. Lei è depressa, non si rassegna, si abbandona a un sesso primitivo e selvaggio col marito per rimuovere la dilaniante tragedia mentre lui cerca di applicare i suoi metodi analitici nel tentativo di guarirla. Ma le forze ignote dell’ambiente incontaminato in cui si trovano immersi imporranno il loro sopravvento (“La natura è la Chiesa di Satana” sostiene lei) e il dominio del dolore in cui vivono, isolati dal mondo civilizzato, si tramuterà in follia irrazionale e demoniaca dagli esiti catastrofici.
Ispirato a Strindberg ma dedicato a Tarkovskij, girato con una maestria rara e sofisticati effetti speciali potenziati dalla superba fotografia del premio Oscar Anthony Dod Mantle, “Antichrist” lancia una sfida estrema allo spettatore insinuando malessere e più di un dubbio sui limiti della psicoterapia (“Freud è morto” ricorda la protagonista) ma restituendo dignità al fascino estetico dell’accoppiamento carnale come energia brutale in grado di dominare sulle coscienze e sul buon senso. Alcune scene splatter alla “Hostel” hanno turbato gli spettatori braccati, divisi tra urletti e risatine isteriche, ma l’entusiasmo si è fatto sentire dopo l’ultima, memorabile inquadratura (ne avessimo, di registi così!), in grado di sciogliere la tensione accumulata in un fragoroso applauso e qualche grido divertito. Sarebbe ora che a Lars fosse assegnato il riconoscimento per la miglior regia, unico premio di Cannes che gli manca e che meritava già per “Dogville”.
Un po’ deludente, invece, la commedia naif "Taking Woodstock" firmata da un Ang Lee al di sotto delle sue possibilità, nuovamente alle prese con questo genere leggero quindici anni dopo “Mangiare bene uomo donna”. Senza ricreare alcuna immagine del concerto rock più celebre della storia, tenutosi tra il 15 e il 18 agosto 1969 a White Lake, nello stato di New York, ma utilizzando spesso lo split screen, lo schermo diviso in più parti, come nel doc premio Oscar ‘Woodstock’ (1970) di Michael Wadleigh, Ang Lee racconta dell’organizzatore gay Elliot Tiber (l’attore comico televisivo Dimitri Martin, simpatico), decoratore d’interni del Greenwich Village, e della sua impresa di mettere su il mastodontico evento utilizzando come base lo scalcagnato motel dei genitori nonostante la natura paludosa del luogo verdeggiante, dopo che una borgata vicina aveva rifiutato di accogliere un festival di musica hippy.
Ang Lee sembra però spaventato all’idea di fare il suo terzo film gay dopo il pimpante “Banchetto di nozze” e l’epocale “Brokeback Mountain”, quindi limita assai la connotazione queer – c’è solo un bacio in bocca con applauso a un montatore del palco durante una festa e un visionario trip lisergico nel furgoncino Volkswagen di una coppia bisex – concentrando la parte più ‘watersiana’ della commedia nel bizzarro personaggio del guardiaspalle Wilma (Liev Schreiber), più che una drag, un uomo con parrucca e seno finto, ex combattente in Corea con pistola legata alla coscia e pistolone poco più su. Il regista sembra intenzionato anche a smitizzare l’importanza storica di Woodstock, asciugando l’impatto nostalgico e semplificando l’intreccio per focalizzarsi sulla parte più intima dedicata alla famiglia di Tiber (stupefacente Imelda Staunton nei panni della burbera madre tirchia). Così facendo, pur realizzando una commedia piacevole e solare, rischia di cadere nel semplicistico e nel fricchettone: l’irrisolto “Taking Woodstock”, nonostante alcune scene di massa d’indiscutibile impatto, resta il film più interlocutorio della sua carriera.
Uno dei titoli migliori presentati l’abbiamo visto al Certain Regard, ed è “Precious” di Lee Daniels, già vincitore del Sundance col titolo di “Push”. La storia è praticamente puro horror: l’obesa Precious (Gabourey Sidibe), ragazzona nera abusata dal padre, incinta nuovamente dopo aver avuto da lui una bambina mongoloide, è costretta a cambiare scuola e un’insegnante lesbica, la signora Rain (Paula Patton, forte e delicata insieme) tenterà di prendersi cura di lei e del suo atroce destino. In ruoli minori ritroviamo, irriconoscibili, una smunta Mariah Carey e uno strabico Lenny Kravitz.
Puntellato dai sogni camp della protagonista che immagina di essere una celebrità ammirata del jet-set internazionale, il notevole “Push” ha un’energia visiva davvero insolita e non cede al compiacimento nemmeno nelle scene più a rischio come quelle degli abusi e delle liti furibonde con la madre complice dell’orco. Positivo il messaggio della lesbica molto ‘femme’, accasata con compagna, che induce a far cambiare idea a Precious riguardo ai pregiudizi sugli omosessuali inculcati in famiglia: “I gay non spacciano e non rubano!”.
Ha invece spiazzato i suoi fan il visionario Michel Gondry (“Se mi lasci ti cancello”) con un toccante documentario molto più tradizionale del solito, “L’épine dans le coeur” (La spina nel cuore) sulla vita di sua zia Suzette, maestra di provincia con figlio omosessuale, Jean-Yves, solitario e appassionato di modellismo. Il loro rapporto conflittuale e il fantasma del padre scomparso, riemergono pudicamente anche grazie alla complicità famigliare della videocamera del nipote: “Sapevo che Jean-Yves era così ma c’era un ‘grande blocco’ e non se ne parlava”. Con innesti tipicamente alla Gondry – l’abito ‘speciale’ che fa scomparire gli allievi, il funerale in animazione – questo intenso doc meriterebbe davvero di essere distribuito. In sala era presente tutta la famiglia e forse il pubblico si è commosso più della stessa Suzette, soprattutto quando si è scambiata col figlio gay un eloquente sguardo stracolmo d’amore e comprensione. Che brividi!
di Roberto Schinardi – da Cannes
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