Ci sono voluti ben sette anni per realizzare Ciliegine, esordio di Laura Morante dietro la macchina da presa ("manco fosse Ben Hur" ha commentato ironicamente lei stessa, anche produttrice), e il risultato è una commedia sentimentale vezzosella e insapore che vorrebbe strizzare l’occhio ad Allen e Resnais ma è frenata dall’inconsistenza dello sviluppo narrativo. L’ennesima ronde parigina tutta cicaleccio e interni bo-bo, cioè borghesi-bohémiens, come tanto (troppo) cinema transalpino. Questa volta è il turno di Amanda, interpretata dalla stessa Morante, in crisi col compagno Bertrand (Frédéric Pierrot) che nel giorno del primo anniversario di fidanzamento osa mangiare l’unica ciliegina sul gâteau scatenando le sue ire.
Il marito psicanalista della sua migliore amica, Florence (Isabelle Carré), le diagnostica l’androfobia, ossia la paura degli uomini di cui non sopporta disattenzioni e superficialità nei suoi confronti. A un veglione di Capodanno conosce il solitario Antoine (Pascal Elbé) e se ne innamora, convinta per un equivoco che sia gay. Florence e consorte, pur venendo a conoscenza del malinteso, non le rivelano come stanno le cose, convinti che la magia amorosa sia proprio dettata dalla convinzione dell’omosessualità di Antoine da parte di Amanda.
Premesso che sia necessaria un’assoluta sospensione dell’incredulità per rendere plausibile il non rivelarsi dell’eterosessualità di Antoine alla terza battuta, visto che per tutto il film si chiacchiera in continuazione, l’incontro rivelatore fra donna etero e maschio presunto gay poteva mettere in evidenza le dinamiche comportamentali che ne favoriscono le affinità elettive (il proliferare delle cosiddette ‘fag hag’, femmine non gay molto amiche degli omosex) ma purtroppo si sciorinano i soliti, abusati luoghi comuni: i gay sono più sensibili degli etero, i migliori amici delle donne, eccetera. Così il contesto queer sembra un microzoo stereotipato osservato da un visitatore fermo agli anni ’80: l’amico omosessuale Maxime (Samir Guesmi) sventaglia gli arti superiori come eliche e sgrana gli occhioni; il discopub è colmo di muscolosoni in ormone che sedurrebbero pure il bancone; la riconoscibilità sociale degli altri gay è dettata da effemminatezza esuberante meglio se con foulard e sguardo cochon.
Invece che approfondire i gap culturali che all’alba della rivoluzione multigender hanno messo in crisi l’eterosessualità maschile nei confronti dell’altro sesso (sarebbe stata l’occasione giusta), si preferisce la struttura della pochade, e così la scena in cui si finge la convivenza tra Maxime e un Antoine sfranto e malato ricorda inesorabilmente ‘Il vizietto’ ma fuori tempo massimo e, soprattutto, senza averne la carica ironica e sovversiva.
Un punto di merito va all’espressività malinconica e sofferta di Pascal Elbé, azzeccato nei panni dell’introverso Antoine, in grado di rimanere impresso grazie ai giusti sottotoni e a tempi recitativi tutti in sottrazione ed essenzialità. La Morante sul grande schermo è sempre la Morante: inquietudini, sottili nevrosi, pieghe facciali sull’istericuccio andante. La regia è invece piuttosto impersonale.
Sembra quasi uno sfizio d’autore ma non troppo, la cui urgenza davvero non emerge anche se la confezione è professionale, con musiche di Nicola Piovani, Maurizio Calvesi alla fotografia ed Esmeralda Calabria al montaggio. Ciliegine, sì, eppure senza nocciolo (della questione: lei ama lui perché se fosse gay sarebbe più simile a lei?).
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