È il film queer più originale del 33° Torino Film Festival, un eccentrico pastiche sperimentale fatto di sovrimpressioni e dissolvenze, dove lo schermo è inteso come una tavolozza cromatica in cui lo spettatore è invogliato a cercare stimoli e cenni visivi, inserti di cinema classico (anche l’italiano Cabiria di Giovanni Pastrone) e una colonna sonora ipnotica che lo accompagna dalla prima all’ultima inquadratura, senza interruzione. Stiamo parlando dello psichedelico Heterophobia diretto da Goyo Anchou, regista argentino al terzo film, docente di cinema, che ha voluto raccontare la drammatica storia di Mariano, gay violentato da un amico eterosessuale di cui s’innamora inesorabilmente. Un cine-ufo innovativo e provocatorio che comincia con una lunga scena di masturbazione in primo piano mescolata ad altre immagini in un flusso magmatico che ricorda certi sperimentalismi degli albori del cinema gay alla Jonas Mekas. Sarà distribuito da The Open Reel.
Abbiamo intervistato Goyo Anchou all’interno della suggestiva Mole Antonelliana (giustamente Goyo vuole subito fotografare la riproduzione del Moloch di Cabiria dell’amato Pastrone).
Com’è nata l’idea di questo interessante film gay sperimentale, Heterophobia?
Non è nato sperimentale, è cresciuto sperimentale. Spesso la nozione di sperimentale è associata a un concetto asettico di laboratorio. Questo film non è stato fatto così, ma in mezzo alla polvere, all’esterno, è dissidente, con un linguaggio da outsider per poter esprimere la cultura argentina, al di là del concetto di narrazione mainstream.
Usi lo schermo come una sorta di canovaccio in cui realizzi collages di immagini come dipinti…
La mia specialità tecnica è il montaggio. La libertà come montatore è più ampia che non come operatore, ho più tempo per infondere senso alle immagini e renderle visualmente più accattivanti.
La storia di Mariano è vera?
È reale ma c’è anche qualcosa della mia esperienza come uomo gay in Argentina che sviluppa una sorta di odio nei confronti di se stessi e dei violentatori eterosessuali. È un’esperienza comune a molti omosessuali. Ma anche molte ragazze a cui ho mostrato il film mi hanno detto che è capitato anche a loro.
Il sottotitolo di Heterophobia è ‘una rapsodia antipatriarcale’, perché?
È un odio nei confronti della figura dei patriarchi, più che dei padri, è la radice di molte sofferenze per questi desideri sessuali.
Come hai trovato gli attori?
Quando ero professore all’Università organizzavo corsi di recitazione, ho conosciuto un ragazzo che sei anni dopo è diventato l’attore principale.
Perché a un certo punto appare il personaggio del vampiro?
Amo i vampiri. Il vampiro è puro odio, vuole distruggere tutto, è rabbia cieca. È la natura dell’odio, come il fuoco.
Il vampiro è anche un personaggio molto sessuale, e di sesso nel tuo film ce n’è molto, ma è molto ‘politico’, come forma di ribellione alla società. Perché la lunga scena di onanismo all’inizio?
È ispirata alla prima scena di La legge del desiderio di Almodóvar. Adoro la struttura di quel film. È una scena che non ha nulla a che fare col resto. Il sesso qui è violenza e rabbia perché il risveglio sessuale del personaggio arriva da una situazione violenta.
Come hai scelto la musica, molto ipnotica?
È ipnotica perché non si arresta mai, dall’inizio alla fine. Durante il montaggio ho pensato di usare chitarra amatoriale, cover di hit pop e creare una musica omogenica.
C’è molto cinema nel cinema, in Heterophobia. Quali classici ti hanno ispirato?
Fondamentale, adoro i classici muti italiani. Ma il riferimento principale è La hora de los hornos (L’ora dei forni, n.d.r.) di Pino Solanas, un film rivoluzionario e clandestino.
Il tuo primo film s’intitola Safo…
L’ho fatto quando insegnavo Storia del Cinema a Buenos Aires. Il direttore della fotografia de La Patota che è qui a Torino era un mio allievo. Safo parla di corruzione di uno dei politici eterosessuali candidati, nasce da un dibattito in classe sulla rivoluzione argentina, un melodramma classico con molti travestiti in vari ruoli.
Hai fatto altri lavori queer?
Sì, La peli de Batato, un lungo documentario di due ore e mezzo su alcuni clown e poeti travestiti degli anni Novanta molto importanti nella cultura underground argentina.
Nuovi progetti in corso?
Sì, il seguito logico di Heterophobia, immagino le conseguenze della rivoluzione.
Eri già stato a Torino? Ti piace il festival?
È la prima volta che ci vengo. Il Torino Film Festival è molto serio.
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