Cinema italiano, qualcosa si muove. E non arriva dal cuore sacro un tempo indiscusso della produzione tricolore, quella Roma ‘caput cinemundi’ che vantava una produttiva Cinecittà ora in piena crisi, bensì dalla Sardegna, “paradiso regalato da Dio” come diceva De Andrè, magica isola che ospitò leggendarie produzioni quali "Una questione d’onore" di Luigi Zampa o la Palma d’Oro "Padre padrone" dei fratelli Taviani – ma non dimentichiamo il fiammeggiante set del cult gay jarmaniano "Sebastiane" nel 1976. Oggi, però, la Sardegna non solo ospita autori, li genera.
L’onda sarda indipendente, infatti, presenta cineasti sempre più apprezzati criticamente quali il dorgalese Salvatore Mereu (il suo "Bellas Mariposas" ha incantato l’ultima Mostra di Venezia) o il regista gay di origini oristanesi Peter Marcias, uno dei più interessanti della nuova generazione, anche documentarista attento alla sperimentazione del linguaggio, di rara sensibilità nell’affrontare il tema della diversità ad ampio raggio e in uscita a fine novembre col lungometraggio "Dimmi che destino avrò" in cui affronta in maniera inedita e scevra dagli stereotipi il rapporto tra la cultura rom e quella dei ‘gagè’, cioè coloro che non sono rom.
E di origine rom è la protagonista Alina (l’attrice albanese Luli Bitri) che, dopo anni di lavoro a Parigi, torna nel villaggio natio nei pressi di Cagliari dove instaura un profondo rapporto di amicizia con un commissario di polizia cinquantenne (Salvatore Cantalupo). Nel film c’è anche spazio per la tematica gay. Ne abbiamo parlato col regista Marcias.
Come è nata l’idea di "Dimmi che destino avrò"?
Il vero ispiratore di tutto è stato lo scrittore e sceneggiatore Gianni Loy, che lavora da tanti anni con le comunità Rom della Sardegna. In questi anni mi ha parlato a lungo di questa storia. Un bel giorno ho voluto saperne di più ed è iniziato questo ‘viaggio’ molto affascinante. Una storia che fa riferimento a situazioni che mi sono care, come la diversità, l’integrazione, il dramma sociale. Le affronto con un tocco di realismo magico. È nato un film narrativamente lineare, dallo stile piuttosto classico.
Come mai raccontare la comunità rom?
Tra le scelte caratterizzanti e significative nello sviluppo del progetto, ho condiviso il netto rifiuto della facile tentazione di una scrittura in chiave antropologica o sociologica e la scelta di affrontare il tema del rapporto tra le due culture, quella dei rom, e quella dei “gagè”, i non rom, in forma diretta, priva di ogni velo o condizionamento che potesse alterare l’essenza del problema.
Com’è stato girare nei campi rom?
È stato difficile ma molto affascinante. Per loro era una cosa nuova ma sono stati molto disponibili e hanno apprezzato la nostra delicatezza. Abbiamo girato nei campi rom per più di un mese.
Dove avete girato?
Le riprese si sono svolte lo scorso inverno tra Cagliari e Parigi. Il film è stato prodotto da Gianluca Arcopinto e dalla Fondazione Anna Ruggiu, ed uscirà al cinema con lo storico marchio Pablo sempre di Arcopinto dal 29 novembre in Sardegna, poi sul territorio nazionale. Per Natale ci sarà una sorpresa, ma bisogna seguire la pagina facebook ufficiale.
Nel film c’è anche un personaggio gay. Ce ne parli?
Sì, è interpretato da un giovane attore sardo, Davide Careddu, ed è la parte più curiosa del film, nonché colorata. Ci siamo divertiti tanto a realizzarla. Non vorrei però svelare troppo, è un personaggio molto importante che lega il protagonista del film, un commissario di polizia disilluso, interpretato con grande naturalezza dall’attore Salvatore Cantalupo di "Gomorra" e "Corpo Celeste".
Si può intendere anche come una storia sull’integrazione di personaggi in qualche modo ‘diversi’?
Mi trovi d’accordo. Gli episodi della storia, qualche volta drammatici, offrono l’occasione per soffermarsi sulla problematica della convivenza di differenti culture ed etnie. Ma il film parla soprattutto, ed essenzialmente, di amore. Della possibilità di ascoltarci senza tener conto dell’etnia, della religione, del colore della pelle e di altro ancora…
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