Gohatto – Tabù, il nuovo film di Nagisa Oshima, celebrato maestro de "L’impero dei sensi" e "Furyo" non è una tenera storia d’amore omosessuale. Piuttosto è un film di arti marziali con molta "passione" omosessuale. Nel tempio buddista occupato dalle truppe Shinsengumi, improvvisata scuola di samurai, poco si farfalleggia e molto si combatte. E’ vero, ogni tanto si prende anche il tè e si spettegola, ma solo per ingannare il tempo prima della battaglia.
Il film segna il ritorno alla cinepresa dopo quattordici anni del regista giapponese, l’uomo che fuse la pronografia con la cucina al vapore, che eliminò il confine fra sporcacciata e arte, che consacrò lo strangolamento come atto di piacere. Qualcuno, per imitare la famosa scena dell’"Impero", ci ha pure lasciato la buccia, ma tant’è… la madre dei cretini è sempre incinta, diceva Flaiano.
Gohatto è una storia di pulsioni brucianti tra uomini, ma senza vergogna. I samurai shoggun, fazione nobile e reazionaria, nemici dell’imperatore, sono alle soglie della capitolazione nella Kyoto del 1865.
Uomini senza macchia e senza paura cresciuti nel mito della guerra e dell’onore. E nel disprezzo della morte: tanto che se un capitano muore in guerra, tutti i suoi soldati devono fare harakiri.
Nel tempio la vita scorre noiosa fra gli aristocratici predestinati, fatta eccezione per qualche combattimento di kendo con le spade di bambù. Almeno fino al giorno in cui non compare il giovanissimo Kano, rampollo di una nobile casata, inviato dalla famiglia come apprendista samurai.
E qui si complicano le cose. Tutti i veri uomini della sanguinaria combriccola non sono capaci di resistere al fascino virulento dell’adolescente dal corpo adulto e dal volto efebico d’alabastro. Si innamorano di lui il brutto capitano e il bellissimo compagno d’armi; persino il duro comandante (ma veramente duro, dal momento che l’attore è l’affascinante Takeshi Kitano) viene assalito da pensierini impudichi.
E il seduttore, con sensuale indolenza, come Gitone nel Satyricon, si concede a tutti, in un frusciare di kimoni neri e bagliori lunari.
E le donne? Giammai!
Perché introdurre ulteriori elementi di disturbo in un mondo che già da sé non pare sprovvisto di difficoltà. Troppe volte, nelle storie d’amore gay la femmina è contraltare, immagine fastidiosa o materna. In "Gohatto" si trasforma in mostro e finita lì. Altro, infatti, non si può definire l’orrida geisha della casa da tè dove viene condotto Kano, perché si faccia "uomo". Ma quella enorme baldraccona appare talmente disgustosa da suscitare seri dubbi anche nell’eterosessuale più coriaceo.
di Paola Faggioli
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