Wieland Speck, l’anima gay della Berlinale: “In Italia solo Ozpetek”

Il direttore di Panorama e fondatore del Teddy Award ripercorre 30 anni del cinepremio gay

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È un uomo di grande fascino, Wieland Speck. Splendido sessantacinquenne – dal vivo ne dimostra dieci di meno – è il numero due della Berlinale dopo il direttorissimo Dieter Kosslick, e la vera anima gay pulsante del terzo cinefestival del mondo, ma il più filoqueer (segue Cannes e Venezia, ma rispetto quest’ultimo ha un budget quasi doppio, di circa 23 milioni). A Speck va il merito di avere scoperto il cinema gay più innovativo degli ultimi trent’anni, da Van Sant ad Almodóvar – primi Teddy della storia – fino a Todd Haynes che domenica sarà agli Oscars 2016 col raffinatissimo Carol. Nel 1982, la sezione Panorama fondata da lui e Manfred Salzgeber, deceduto a 51 anni nel 1994, era unicamente lgbt e si è ‘eterizzata’ col tempo, diventando ora persino più interessante del concorso (come è successo quest’anno, se escludiamo Fuocoammare e Quando on a 17 ans). Nel 1987 Wieland Speck e Salzgeber fondano il Teddy Award, quell’orsetto gay che è diventato il più prestigioso cinepremio queer del mondo, e ha lanciato, oltre a Van Sant e Almodovar, anche Jarman, Rosa Von Praunheim, Lukas Moodysson, François Ozon, Tony Ayres, Sébastien Lifshitz, Eytan Fox, John Greyson, James Franco, Céline Sciamma, Bruce Labruce, Sebastian Silva, Olivier Ducastel e Jacques Martineau (ri-premiati quest’anno col Teddy del pubblico per Théo et Hugo dans le meme bateau). Incontriamo Wieland negli uffici provvisori di Panorama all’Hotel Hyatt. Indossa una elegantissima stola della Berlinale sulla spalla sinistra.

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Nell’introduzione di Panorama parla di “coppie eterosessuali” per il film di apertura Europe, She Loves: una frase così, in Italia, suonerebbe ridicola…

Ritengo che la percezione dell’eterosessualità sia cambiata, piuttosto che quella dell’omosessualità. Comprendono che sono la maggioranza, ma solo la maggioranza: non sono tutti. Questo è il cambiamento. La maggioranza ha responsabilità nei confronti della minoranza. In democrazia, se rappresenti l’uno per cento, per esempio, non hai responsabilità nei confronti di nessuno.

Crede che il cinema possa aiutare a comprendere questo?

Sì, ma ritengo che gli eterosessuali debbano innanzitutto capire se cosa vuol dire essere eterosessuali.

Trent’anni di Teddy Award. Quali erano le sue sensazioni all’inizio di questa esperienza?

Principalmente avevamo uno spazio, visibile, diciamo di pubblica conoscenza di un dieci per cento da celebrare e invitare il resto del novanta per cento. Avevamo un interessante mix di gente, certamente gay, lesbo, trans ma anche eterosessuali. Ci sono voluti trent’anni, però, affinché gli etero ‘brillassero’, in un certo senso, alla luce del Teddy Award. Adesso viene il sindaco, i direttori di festival, ambasciatori di diverse nazioni. È un riconoscimento di un valore che però resta queer anche se i media sono mainstream e ‘etero’… Questo non è successo in un paio d’anni. Continuiamo a fare quello che facciamo!

Il primo vincitore (coi corti Five Ways to Kill Yourself e My New Friend, n.d.r.) fu Gus Van Sant… Non male come inizio!

Poi seguì Almodóvar! Non potevamo immaginare che entrambi sarebbero diventate due grandi celebrità. Certo, siamo stati fortunati. Loro stessi hanno portato i Teddy Award, in seguito, direttamente nei media principali, quelli che contano. Solitamente, se sei gay e diventi famoso, la maggioranza ti fa sua e ti trasforma in ‘Orsi’. Ma resti gay: è anche una differenza generazionale, comunque.

Nella prima edizione dei Teddy Award quanto internazionale era il pubblico e la percezione di ‘cinema queer’?

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Bella domanda. Dovremmo vedere il programma di quell’edizione, non mi ricordo esattamente i titoli che mostrammo. Diciamo che era internazionale esattamente come adesso ma c’era meno gente queer presente da tutto il mondo. Oggi abbiamo circa 250 ospiti che fanno parte degli incontri ‘accademici queer’ ma prima era un gruppetto di circa 25 persone!

Il cinema queer si è evoluto molto: crede che questa evoluzione sia parallela al cinema mainstream, a cui assomiglia sempre più?

Credo che sia una questione di emancipazione. Non so se è un’evoluzione. La fine dell’emancipazione è l’uguaglianza: uguaglianza vuol dire che tutto è uguale. Non è una scena così interessante, a livello cinematografico, se il dramma è forse meno dramma: è il modo, lo sguardo con cui rendi il dramma, come ci arrivi, che cambia. Ma i politici in questa nazione sono troppo occupati per capire che il mondo queer non è come il mondo etero: non abbiamo il matrimonio gay e altre cose. Non siamo mai uguali. Abbiamo avuto legge naziste contro l’omosessualità fino al 1969 nella Germania dell’Ovest, la gente uscita dai campi di concentramento non si è mai riconosciuta come vittime delle leggi naziste. Ci sono molti problemi in questa nazione. Abbiamo una cancelliera che ha ‘mal di stomaco’ quando si parla di adozioni gay: sono parole di Angela Merkel.

Per ricostruire la storia del movimento gay, il genere documentario è molto importante…

Si è sviluppato molto, in varie parti del mondo in momenti diversi, dall’Asia all’America. Ciò che facciamo noi è internazionale, collaboriamo direttamente con le istituzioni nazionali, come lo Schwules Museum (Il Museo Gay di Berlino, trasferitosi in Lützowstrasse davanti a un parco per bambini, n.d.r.). Ma c’è anche un cambio generazionale, e i ragazzi e le ragazze lesbiche che escono dall’Università hanno uno sguardo diverso rispetto ai maschi gay di un tempo, che hanno fondato il museo: ci sono mostre su diversi tipi di ‘omosessualità‘, sulla storia dell’omosessualità.

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Ritiene che ci sia una vera comunità gay a Berlino?

No. Ci sono tanti gruppi. C’è un enorme ombrello che raggruppa tutti o quasi: per esempio i bancari gay non vogliono stare sotto questo ombrello… Ci sono parole che sono diventate positive, come ‘schwules’, ma nei cortili delle scuole è ancora un insulto. Queer era una persona negativa in inglese, era discriminatoria… E non era certo un termine commerciale!

Il cinema queer mondiale non si sarebbe sviluppato così senza produttori illuminati come Christine Vachon che ha ricevuto un Teddy Award Speciale…

A tutt’oggi non ci sono film realmente radicali tranne alcune nazioni, che sono radicali per determinate circostanze, in maniera intelligente come quest’anno la Corea (The Bacchus Lady di E J-yong e Weekends di Lee Dong-Ha, n.d.r.) o l’Africa in anni passati. Per esempio il cinese Inside the Chinese Closet è una coproduzione olandese e non penso che i cinesi l’avrebbero fatto da soli così. I coreani fanno passi molto veloci ma la società li marginalizza ancora, è una forte arma per gli omofobi per renderli invisibili.

Che cosa pensa del cinema italiano queer?

Sfortunatamente, non ci sono molti film italiani in giro, queer e non. È un problema culturale, non gay. Non lo so. L’Italia per molti anni è stata il numero uno del cinema d’autore ed era piuttosto gay, da Visconti a, non c’è da dirlo, Pasolini… Selezionammo Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek e un altro suo titolo.

In Italia i pionieri sono stati Giovanni Minerba e Ottavio Mai…

Certo, i direttori del Festival Gay di Torino! (Wieland Speck vinse un premio al Togay col suo film Westler sull’amore tra due ragazzi separati dal muro di Berlino, n.d.r.). Ma non c’è competizione tra Torino e Berlino, noi siamo un festival con un mercato, è una cosa differente: mostriamo film che secondo noi funzionano.

Non è emerso nessuno altro italiano?

No, è un peccato, ma anche in Germania non siamo messi molto meglio…

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Qual è il titolo perfetto per Panorama secondo il suo punto di vista?

Gestiamo qualcosa come tremilacinquecento film all’anno. Ho venticinque persone che lavorano con me. Devono diventare ottocento, quelli che vediamo. È impossibile dirlo. Credo di avere una sorta di feeling per capire che è il film giusto per il programma.

Il cinema è anche politica: che cosa pensa della stepchild adoption?

Sono per l’eguaglianza per tutti. Non mi interessa il matrimonio: non voglio essere sposato, non funziona bene, ma tutti dobbiamo avere gli stessi diritti. Sono per ogni tipo di adozioni: dobbiamo innanzitutto avere cura di tutti gli esseri su questo pianeta.

Avete mai avuto problemi di censura?

Sempre, ci sono un sacco di nazioni con problemi di censura, come la Cina.

Qual è il futuro del cinema queer, sarà online?

Online c’è solo il porno. Ma non mi interessa. Il cinema queer si sta ‘normalizzando’, il feeling delle storie anche, è un processo naturale se si pensa che l’emancipazione ha instaurato una sorta di progresso in questo senso, anche in Africa o in altri posti più ‘difficili’.

Il futuro? Forse film su gorilla gay, non posso prevederlo. Non ho percezioni sul futuro, dobbiamo lavorare sul presente, passo dopo passo, perché il futuro sia più giusto. Facciamo storia ma non quella ufficiale, non saremo sui libri di scuola: dobbiamo spezzare l’invisibilità. E il cinema è una forma d’arte visibile.

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