È il più prolifico, eclettico e imprevedibile attore della new generation hollywoodiana (ma anche regista – il suo “Zeroville” con Megan Fox potrebbe approdare a Cannes – produttore, scrittore, professore universitario, pittore e quant’altro). Stiamo parlando del prezzemolino golden James Franco, molto attento all’humus fertile dei giovani filmmaker internazionali e quindi capace di passare con un colpo di ciak da una megaproduzione come il disneyano “Il Piccolo Principe” (dà la voce alla volpe) a un low budget d’autore come “I Am Michael” di Justin Kelly sul pastore ‘ex-gay’ Michael Glatze, di cui abbiamo ampiamente parlato, presentato ieri alla Berlinale. Ma James è onnipresente, e al festival teutonico è cinematograficamente uno e trino: lo troviamo anche nell’avventuroso “Queen of the Desert” di Werner Herzog, accolto piuttosto male, dove è Henry Cadogan, diplomatico in carriera e amante focoso dell’archeologa nonché agente segreto Gertrude Bell (Nicole Kidman). Interpreta invece uno scrittore travolto dai sensi di colpa, tale Tomas Eldan, che non si dà pace per aver ucciso un bambino in un incidente d’auto, nel dramma famigliare in 3D “Everything Will Be Fine” di Wim Wenders, dove recita a fianco di Charlotte Gainsbourg e Rachel McAdams. Iperattivo sui social – ha qualcosa come quasi tre milioni di follower su Twitter -, multiFranco è anche Laica Trinità a livello iconico: ieri twittava gaudente foto sgranate con ‘due ragazzi tedeschi’ (nientemeno che Herzog e Wenders) nonché con la rock friend Courtney Love e il potentissimo curatore d’arte Klaus Biesenbach, direttore dell’ipertrendy MoMa PS1. Ma l’interrogativo supremo è sempre lo stesso: allora Franco è gay o no? Ci è o ci fa? Un nostro insider a Berlino ci garantisce frequentazioni assidue di Franco con ragazzi più o meno noti, non appena avremo prove concrete vi faremo sapere.
Alla conferenza stampa di “I Am Michael” il nostro adorato James ha espresso tutto il suo entusiasmo per il progetto: “Ero interessato alla storia che approfondisce i temi della sessualità e dell’identità – ha dichiarato l’attore -. In un primo momento ho pensato che la storia di un attivista gay che diventa pastore fosse insolita. C’è voluto molto lavoro per rendere il personaggio realistico, e per presentare entrambi i lati della questione, permettendo al pubblico la propria analisi ed interpretazione. Il vero Michael Glatze ora è più in pace con se stesso, ha superato degli anni molto duri”.
“Uno dei suoi problemi – continua Franco – è che si tratta di una persona che mette passione in tutto quello che fa, e voleva condividere il suo messaggio, viaggiare, aiutare gli altri a rendere più sopportabile il dolore. Secondo me era confuso su come affrontare la sua nuova identità dopo aver deciso di essere eterosessuale. A prescindere dalla visione religiosa, il problema principale è stato che alcune delle sue opinioni hanno ferito altre persone che aveva incontrato in precedenza. Si è trattato del risultato di condividere la sua esperienza pubblicamente. Una delle cose meravigliose del film è che solleva tutte le domande e poi lascia che sia il pubblico a decidere quali siano le risposte da dare”.
Nel frattempo, in concorso, si candida prepotentemente all’Orso d’Oro il dramma cileno “El club” del grande Pablo Larrain (al suo mirabile “Post Mortem” fu scippato nel 2010 il Leone d’Oro veneziano da Quentin Tarantino che gli preferì il dimenticato “Somewhere” della sua ex fidanzata Sofia Coppola). Questo suo nuovo lavoro, molto apprezzato dalla critica, racconta di quattro sacerdoti e una suora ‘esiliati’ in una remota casupola sul mare, colpevoli di vari reati: pedofilia, sequestro di minori, copertura di attività illegali dell’esercito. L’arrivo nella piccola comunità di un altro prete, accusato pubblicamente di stupro da un vagabondo, scatena la tragedia sulla quale indagherà un prete gesuita. “Ho avuto una formazione cattolica – ha dichiarato il regista in conferenza stampa – e ho conosciuto preti di grande valore, belle persone in cammino verso la santità, ma anche preti che sono finiti in carcere per i loro crimini e altri che invece sono persi, sono stati nascosti e non sono stati puniti. Questi ultimi mi sembravano un soggetto interessante per la mia storia. Ciò che mi affascinava dal punto di vista narrativo era il fatto che la Chiesa non crede nella giustizia civile, ma in quella divina, perciò tende a gestire queste situazioni nascondendole, o affrontandole internamente”. Riguardo alla scena più scabrosa, quella in cui la vittima del prete pedofilo elenca nel dettaglio gli abusi subiti, il regista ha dato questa spiegazione: “Mi affascinava il fatto che la vittima non avesse problemi a raccontare certe cose, per le quali io invece proverei vergogna. Ho parlato con diverse vittime di queste violenze, e loro raccontano i fatti così come vedete nel film, ripetendosi molte volte. Il film mette la vittima e il carnefice vicini, producendo questo effetto potente”.
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