Lo hanno già soprannominato il "Tarantino europeo" ed è uno dei registi emergenti di maggior talento sulla scena contemporanea. Nicolas Winding Refn, quarantenne danese, allievo di Von Trier da cui, almeno stilisticamente, ha subito preso le distanze collocandosi agli antipodi del Dogma, è stato scoperto in Italia due anni fa grazie a una retrospettiva completa al Torino Film Festival e lanciato internazionalmente a Cannes dal premio come miglior regia per la sua ultima fatica, "Drive", col fascinoso Ryan Gosling .
Autore di un cinema iperviolento, grottesco, fiammeggiante, dalla messa in scena sofisticata, più vicino al Kubrick di "Arancia Meccanica" e "Full Metal Jacket" che a Tarantino – non flirta mai col pop – Winding Refn (leggasi ‘Rifen’) presenta vari elementi queer nelle sue storie criminali estreme caratterizzate da un cameratismo ostentato che spesso esclude il sesso femminile, con un compiacimento estetico per il corpo maschile nudo piuttosto omo-friendly.
Tra le scene gay cult ricordiamo l’inatteso bacio tra i due amici al pub nel superpulp "Pusher", primo capitolo di una fortunata trilogia scorsesiana su un gruppo di spacciatori vendicativi, davvero di straordinaria intensità.
L’occasione per recuperare il miglior titolo del regista danese è la tardiva uscita nelle sale italiane di "Bronson", biopic sui generis del più celebre criminale d’Inghilterra, tale Michael Peterson detto appunto ‘Bronson’ perché il suo eroe è proprio il celebre Charles, leggendario ‘giustiziere della notte’, e la sua più grande passione il pugilato (o meglio, fare a pugni tout court). Incarcerato dall’età di 22 anni – oggi ne ha 58 – Bronson ha cambiato più di 120 prigioni per le continue aggressioni ai secondini, al punto da guadagnarsi l’appellativo di ‘galeotto più violento d’Inghilterra’.
Nelle mani di un talento visionario come Winding Refn, l’allucinata vicenda di Bronson diventa una lucida rappresentazione del fascino oscuro della violenza, anche grazie al carisma magnetico del sublime interprete Tom Hardy, in grado di rendere al meglio la follia narcisistica che alberga in Bronson, trasformandolo sullo schermo in uno dei ‘cattivi’ cinematografici più affascinanti degli ultimi anni: un provocatore survoltato che gioca col concetto di gender – brechtianamente si presenta allo spettatore truccato per metà da uomo e per metà da donna su un palco fittizio dove parla con voce maschile e femminile come un joker schizoide, al punto da diventare amico di un gay segaligno che lo istruisce su come realizzare il suo grande sogno, ovvero diventare una celebrità a tutti i costi (ma all’omosessuale che gli spiega cos’è realmente l’arte fa fare una fine atroce trasformandolo in statua morente, anziché vivente, alla Gilbert & George).
Raramente si sono visti sul grande schermo scazzottamenti tra maschi nudi e nerboruti così eroticamente intriganti, quasi degli ansiogeni balletti virili trattati alla stregua di sanguinanti coreografie del male (magnifico il pezzo "The Electrician" dei Walker Brothers in colonna sonora), e c’è di che sentirsi in colpa visto l’eccesso di violenza. Eppure quello di Winding Refn è davvero grande cinema.
Da scoprire.
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