QueerCineCult: torna “La vita di Adele”, ecco perché è già un classico

Stasera alle 21.10 su Sky Cinema 1HD l'epocale capolavoro di Abdellatif Kechiche

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Inauguriamo oggi un appuntamento mensile con film classici lgbt da (ri)scoprire, proposti contemporaneamente in tv, “QueerCineCult”. Iniziamo con un’opera epocale che ha solo un anno e mezzo ma è già un classico: “La vita di Adele” di Abdellatif Kechiche, in onda questa sera alle 21.10 su Sky Cinema 1HD. Eccezionale tripla Palma d’Oro a Cannes, assegnata per la prima volta non solo al film ma anche alle interpreti – straordinarie Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos – è probabilmente l’unico titolo lesbico recente che ha conquistato la critica ed è riuscito anche ad arrivare al grande pubblico come l’oscarizzato “I ragazzi stanno bene” di Lisa Cholodenko.
Ma “La vita di Adele” rappresenta per la cinematografia queer molto di più, ed è stato davvero uno spartiacque, per vari motivi. Mai al cinema un amore tra donne è stato descritto con una naturalezza così cristallina, vitale, realistica. E seguendo un trend molto contemporaneo, è riuscito a sdoganare il sesso esplicito attraverso lunghe scene inserite in maniera funzionale alla narrazione, con uno sguardo autoriale, un po’ come ha fatto quest’anno Lars Von Trier con “Nymphomaniac” (il maestro danese a proposito della pornografia sostiene: “Si tratta del cinema più visto ma girato peggio”).

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“La vita di Adele” ha poi lanciato una vera rivelazione, la ventenne Adèle Exarchopoulos, puro istinto e massima espressività, che dovremmo veder incarnare una giornalista nel prossimo film di Sean Penn dal titolo provvisorio “The Last Face” con Javier Bardem e Charlize Theron su un medico costretto a scegliere tra il lavoro umanitario in Africa e l’amore per una collegata americana. Si vocifera persino di un flirt tra Adèle e Sean, visti insieme a Parigi forse non solo per motivi professionali. Nel frattempo la Exarchopoulos ha girato altri due film minori, “Qui vive” di Marianne Tardieu e “Voyage vers la mère” diretto dal russo Mikhail Kosyrev-Nesterov.
Il capolavoro di Kechiche, sebbene il regista gli abbia sempre negato una valenza politica, è poi diventato l’emblema cinematografico del Mariage Pour Tous, il Matrimonio Per Tutti, approvato in Francia tra mille contestazioni poco prima del successo sulla Croisette (nel film è fortissima l’immagine positiva della famiglia omosessuale, con mamma lesbica incinta, serena e realizzata). Si tratta poi di un’opera intergenerazionale, che parla sia ai genitori – vedere i personaggi di mamma e papà delle due ragazze, diversi per ceto sociale e accettazione dell’omosessualità – che ai figli (il bullismo antigay contrapposto alla militanza giovanile del Pride).

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Nonostante l’astronomica cifra di 750 ore di girato, pare che il regista tunisino per ora non abbia alcuna intenzione di dedicarsi a un séguito de “La vita di Adele” (inizialmente il titolo aveva come dicitura ‘Capitolo 1 & 2’), forse anche per le polemiche dovute a condizioni di lavoro difficili: il suo prossimo film sarà infatti “La Blessure”, tratto da un romanzo di François Bégaudeau, sull’estate di un quindicenne nel 1986. Cambierà l’ambientazione, da Nantes alla Tunisia, e Gérard Depardieu dovrebbe avere un ruolo significativo.
In contrapposizione a un montaggio frenetico di derivazione televisiva, Kechiche è riuscito a colpire nel segno anche dal punto di vista del linguaggio, con un personale stile naturalista ellittico fatto di lunghe scene mai banali costruite intorno alla quotidianità e ai suoi riti sociali (cene, feste, inaugurazioni di mostre). Anche la durata di tre ore, mai punitiva, rappresenta una sfida al concetto di cinema come ‘life digest’, come condensato di vita, riscontrabile come tendenza in vari autori contemporanei: si pensi ai recenti, chilometrici lavori di Scorsese, Linklater, Nuri Bilge Ceylan.
L’impressione che “La vita di Adele” sia un film che resterà nel tempo – per questo già parliamo di classico – è la convinzione che ci viene dalla sua caratteristica principale: la rappresentazione senza filtri della passionalità sincera di una storia d’amore in fin dei conti semplice, e quindi universale, al di là di un’eccentricità più o meno queer, per definizione minoritaria.
Da vedere (e rivedere) assolutamente.

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