Eccola, Mélanie Laurent. Minuta, radiosa, in total black elegante senza strafare, l’attrice lanciata da Tarantino in “Bastardi senza gloria” guizza sul palco del Miramar per presentare la sua opera seconda da regista, “Réspire”. E lascia tutti senza fiato. Basta un suo sorriso, la sincerità dello sguardo, e tutto sembra più luminoso: non c’è da aggiungere null’altro. Mélanie ringrazia la commissione della Semaine de la Critique che ha scelto il suo lavoro per un evento speciale e introduce le sue attrici, Lou de Laage e Josephine Japy. Per loro non ha che lodi e affettuosità: “Mi sono innamorata di loro, ho le loro foto sul computer, grazie infinite: non credevo che saremmo andate insieme così lontano”. E in effetti l’alchimia funziona anche sul grande schermo: “Réspire” non può non far pensare a “La vie d’Adèle” di Kechiche ma sembra la sua versione introspettiva e cerebrale tanto quanto il capolavoro di Kechiche era ‘fisico’ e istintivo.
L’attrazione/repulsione tra due liceali assai diverse – una timida con mamma depressa, l’altra appariscente e dominante, con segreto famigliare – è giocata tutta su un piano relazionale psicologico e alla regista interessa cogliere i gesti quasi impercettibili delle protagoniste, assai espressive, pedinandole con la macchina da presa nello stile dei Dardenne per svelarne invidie, rancori, spiriti vendicativi. E la lezione scolastica all’inizio del film assomiglia molto a quella di Adèle ma è giustamente incentrata sulla dialettica tra passione e ossessione, spesso legate a doppio filo nelle dinamiche sentimentali tra adolescenti. L’omosessualità non viene messa in discussione come elemento socialmente emarginante e ciò contribuisce a fornirne un’immagine naturale e accettata (siamo nella progredita Francia, si sa).
Dalla Laurent a “Saint Laurent” il passo è breve ma si tratta della competizione ufficiale. Rispetto al film ‘gemello’ di Jalil Lespert, questo biopic parziale – si concentra nel decennio 1967/1976, quando lo stilista è già famoso – ci sembra più riuscito e meno ‘soap’, con più attenzione all’operoso lavoro sartoriale e una regia sofisticata ed elegante che cerca in ogni inquadratura di cogliere lo spirito creativo del tormentato artista, trasformando addirittura l’ultima sfilata in un quadro di Mondrian attraverso l’uso dello split screen. Gaspard Ulliel riesce a mettere a nudo l’anima di YSL e non solo: c’è un ardito nudo frontale quando esce (non metaforicamente) da un armadio dove è stato chiuso da Bergé (interpretato da Jérémie Renier che funziona meno perché ha un volto troppo adolescenziale). Le orge domestiche in cui è coinvolto insieme a Jacques De Bascher (Louis Garrel) sono accennate senza alcuna volgarità. Bonello sembra sposare la tesi che YSL amasse più quest’ultimo che Bergé (il quale infatti ha sparato a zero sul film), al punto da aver pensato di ucciderlo fracassandogli il cranio con una testa scolpita in pietra.
Abbiamo chiesto a Garpard Ulliel quanto del suo mondo interiore ci fosse nell’incarnare Yves Saint Laurent, soprattutto nelle scene esplicite: “Un attore scopre i propri limiti a ogni nuova esperienza – ci ha spiegato l’attore – e bisogna spostarli se vale la pena. Direi che mi sono sentito a nudo ma non in maniera forzatamente fisica. C’erano elementi più disturbanti nell’aspetto cupo e depressivo di Saint Laurent. I baci non rimandano alla mia realtà ma non è stata una tappa molto complicata. Con Louis Garrel non ci conoscevamo ma è nata una sorta di grazia tra noi: dopo tre settimane di scene ripetitive nell’atelier, con lui il film ha preso un’altra dimensione e Bertrand ha allungato alcune scene. Quella del lungo bacio non era nella sceneggiatura”. “È la sola scena che non era nello script” aggiunge il regista.
Azzeccata è l’idea di far interpretare Yves anziano da un calbrato Helmut Berger, “scelto improvvisamente, ma eravamo certi che fosse la decisione giusta”. Troppo marginali risultano però le figure delle muse Loulou de la Falaise e Betty Catroux: le brave Léa Seydoux e Aymeline Valade sembrano sacrificate. Gran bel cameo di Valeria Bruni Tedeschi, signora impacciata e inibita che Yves ‘libera’ con due veloci consigli su trucco e parrucco. Straordinario il lavoro sui costumi di Anais Romand che non ha avuto accesso alle creazioni originali dello stilista ed è riuscita a riprodurre le opere nei minimi particolari.
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